Scrittura terapeutica: perché ci fa stare bene e come praticarla
Pubblicato
10 mesi fa
Marcello Ferrara Corbari
Autore, scrittore e musicista
Scopri i benefici che la scrittura terapeutica porta a mente e corpo e in che modo può diventare un allenamento quotidiano per conoscere noi stessi e favorire la nostra guarigione interiore
Quello della scrittura è uno strumento multiforme, che si è adattato a molteplici necessità. Da una parte è sempre servita all’uomo per comunicare con altre persone su argomenti strettamente pratici: registrare eventi, dirimere controversie, condividere informazioni. Questo è l’aspetto eminentemente “pubblico” della scrittura.
Su un opposto versante, più “privato” e intimo, la scrittura è sempre stata rifugio accogliente contro le tempeste della vita. E al contempo strumento d’indagine personale e di autoconsapevolezza. È la scrittura intesa come terapia. O per meglio dire la cosiddetta scrittura terapeutica.
Perché la scrittura terapeutica?
Mettere nero su bianco i propri pensieri ha un valore liberatorio. È qualcosa che sappiamo tutti. Una qualità della scrittura che l’uomo conosce da tempi immemorabili. Via via che l’alfabetizzazione ha toccato fette sempre più vaste della popolazione, le persone che entravano in contatto con la parola scritta non potevano che rendersi conto di ciò che, per la propria chiarezza mentale, è rappresentato dal mettere su carta i propri pensieri. Alle volte assillanti e difficili da governare. Ma come per tante pratiche di benessere tendiamo a dimenticarcene.
Sopraffatti dagli impegni e da attività di maggior prestigio sociale, la nostra tendenza è quella di porre nel dimenticatoio quelle pratiche che sappiamo benissimo essere di grande giovamento.
Ma che richiedono un certo grado d’isolamento. Tendiamo a lasciarci trascinare dal flusso degli eventi quotidiani, mentre la scrittura ha notoriamente bisogno di un po’ di raccoglimento. È una compagna esigente: ci vuole tutti per sé, anche se per pochi minuti al giorno.
Scrivere non è così difficile, anche questo sappiamo bene. Si tratta soltanto di aver voglia di cominciare. Poi il resto scivolerà sul foglio con grande facilità e soddisfazione.
Cos’è la scrittura terapeutica?
L’idea di utilizzare esercizi di scrittura terapeutica come metodo di affiancamento delle sedute canoniche di psicoterapia fu di Sigmund Freud. Anche il suo discepolo Carl Jung proseguì in questa direzione, persuaso dai risultati raggiunti dalla maggioranza dei pazienti.
A partire dagli anni Ottanta fu il professor James Pennebaker, docente di psicologia all’Università del Texas, che pose però sistematicamente le basi di quella che è conosciuta oggi col termine inglese di writing theraphy ossia una pratica di guarigione attraverso la scrittura. I suoi studi sottolineano lo stretto legame che può intercorrere tra il linguaggio e il superamento di un trauma.
La scrittura diventa così uno strumento terapeutico. Il professor Pennebaker è un originale: il suo modo di procedere segue un iter piuttosto insolito, consistente nel “liberare” in prima battuta il paziente dai suoi blocchi emotivi, attraverso una serie di esercizi volti a metter in luce il suo rapporto con le parole scurrili e vietate. Con i concetti tabù. Una maniera giocosa e d’impatto per superare quelle che Freud avrebbe chiamato le barriere del Super-Io.
Di seguito la scrittura si fa più intima e psicologica. A seguito di quegli esercizi preparatori, colui che scrive si è svincolato dalle proprie remore nei confronti del giudizio altrui e di ciò che è opportuno o non opportuno scrivere. A quel punto, sgravato anche dalle ambasce della precisione ortografica, sintattica e di punteggiatura, è pronto per dare libero corso alle sue emozioni.
Il blocco dello scrittore
Il focus della scrittura terapeutica è incentrato dunque sul desiderio di esprimere il proprio pensiero e ciò che si è. Al di là delle buone norme di prassi grammaticale. Al di là della maniera in cui a scuola abbiamo appreso come si debba o non debba scrivere. Spesso queste rigidità formali sono la prima causa dei nostri limiti espressivi, portandoci al fatidico blocco dello scrittore. Vale a dire il terrore di fronte alla pagina bianca, o perlomeno la sensazione di vuoto mentale, di non aver nulla da raccontare.
In questo caso la soluzione è più semplice di quanto si creda. Basta impostare un timer (sono sufficienti quindici-venti minuti di attività) e poi darsi come unica regola quella di mantenere sempre la penna in movimento. Registrare qualunque cosa ci passi per la testa. Non passerà molto tempo da che, dopo le prime idee magari un po’ superficiali, si passerà ad argomentazioni molto più corpose. Come per un riflesso automatico cominceremo ben presto a scandagliare i recessi più profondi della nostra interiorità.
A mano o in lavatrice?
Scrittura a mano o in lavatrice? Vale a dire: manuale o meccanica, attraverso la tastiera di un PC? Vanno bene entrambe: quel che conta è che ci dia senso di comodità, scioltezza ed efficienza. Se siete abili a danzare con le dieci dita sui tasti come pianisti virtuosi scegliete quest’opzione (Umberto Eco adorava la scrittura alla tastiera proprio per la maggiore velocità che permetteva e il piacere fisico della coordinazione digitale che innescava). Se invece vi piace di più il contatto con la carta, la gestualità antica e profonda del carattere corsivo, l’odore della cellulosa, allora adottate questo supporto.
Importante però è che i testi digitali vengano stampati, secondo l’opinione di gran parte dei professionisti di questa terapia. Poiché il rapporto fisico con il prodotto finito, con il frutto materiale delle proprie fatiche intellettuali, è più significativo rispetto a una rilettura su monitor.
Dolore fisico
Non si tratta qui del tipico e transitorio dolore fisico all’avambraccio che prova lo scrivano dopo qualche pagina vergata a mano. Ma di vero e proprio dolore dovuto a una malattia. Secondo uno studio del Journal of American Association (JAMA) la scrittura ha una reale e comprovata influenza sulla nostra percezione e tolleranza della sofferenza fisica, oltre che psicologica. Mettere su carta la propria sofferenza e le proprie difficoltà nel gestirla ha come conseguenza la diminuzione di quella stessa sofferenza. Una specie di effetto placebo in versione scrivania.
In particolare lo studio JAMA si è concentrato sulle problematiche legate ad asma e artrite reumatoide, ma il principio è estensibile ad altri ambiti diagnostici.
La pratica della scrittura terapeutica ha un comprovato effetto positivo sulla tensione arteriosa e la frequenza del battito cardiaco. Riduce anche la pressione legata a un alto livello di stress.
Il foglio bianco si trasforma così, per chi vi si applichi con il giusto grado di trasporto e libertà emozionale, in una sorta di “impianto di riciclaggio” in cui depositare i pensieri negativi che ci angustiano, al fine di renderci più ottimisti, sereni e anche energetici.
Sappiamo bene infatti come molte delle nostre energie vengano utilizzate dalla nostra psiche, e di conseguenza anche dal nostro corpo, per trattenere e reprimere emozioni. Liberarle sulla pagina, trasformandole in un oggetto fisico, è un ottimo modo per lavorare su queste rigidità.
Taccuino
Anche tenere sul comodino un taccuino a cui consegnare per la notte l’elenco delle cose da fare per il giorno rientra nelle pratiche della scrittura terapeutica. E vale quanto una bella tisana di camomilla. Anche in questo caso la scrittura si rivela come un eccellente rimedio (anch’esso naturale al cento per cento) contro l’anticipazione ansiosa e la tendenza a ruminare. Le incombenze dell’avvenire incomberanno un po’ meno sul nostro spirito, depositate e custodite nelle pagine di un quadernetto.
Ma non si tratta soltanto sul nostro spirito. Facendo un esempio preso dal campo informatico, è come se così facendo noi liberassimo dello spazio nella RAM della nostra mente. La memoria operativa ne risulta alleggerita e il pericolo di perdere quei preziosi dati è scongiurato. In meno di cinque minuti di scrittura la nostra qualità del sonno ne gioverà con tutta evidenza. È in tutto e per tutto il concetto delle to do list.
Momenti di (in)trascurabile felicità
Molto efficace e corroborante, per aiutarci a sviluppare una visione positiva delle cose è l’aggiungere a queste stringate liste delle incombenze anche un piccolo elenco di momenti propizi della giornata appena trascorsa (ora che avete preso dimestichezza con l’uso del taccuino, segnatelo tra gli esercizi di scrittura di rapida e facile esecuzione).
Annotare situazioni in cui ci siamo sentiti felici, a nostro agio, competenti, soddisfatti, amati e radicati nella pienezza del nostro essere. Penserete che momenti così non ve ne siano tutti i giorni, ma se ci riflettete per qualche istante riuscirete sicuramente a scovarli. Poiché sono molto più frequenti di quanto pensiamo.
Terapia “gratis”
Ogni giorno ci accadono momenti per cui essere grati. E imparare a notare e an-notare questi frangenti di vita fa pienamente parte della pratica della scrittura terapeutica. Che è anche, giocoforza, riflessione su di sé e sulla propria visione delle cose. Perché le due cose sono inscindibili: scrittura e meditazione sono pratiche intimamente connesse.
È una terapia gratuita in tutti i sensi. Sia perché non costa nulla, tranne il prezzo risibile della carta e di una penna. Sia perché l’espressione italiana gratis deriva dal latino “gratiis” (ablativo plurale di "gratia") che significa qualcosa che avviene per benevolenza. Annotare le situazioni quotidiane per le quali provare gratitudine e benevolenza è dunque un esercizio di scrittura doppiamente valido.
Ti bastano poche briciole
In uno studio condotto su pazienti depressi è emerso come una sessione di soli 20 minuti di scrittura terapeutica, perpetrata per tre giorni consecutivi, ha migliorato nettamente gli indici diagnostici relativi alla malattia. Tale tendenza positiva è perdurata nei soggetti per circa 4 settimane dopo la somministrazione del test.
Scrivere del proprio vissuto emozionale e fare il racconto di eventi considerati traumatici innesca un processo di autoconsapevolezza, riconoscimento e indulgenza verso la propria sofferenza. Andando come logica conseguenza a stimolare una serie di atteggiamenti riparatori, volti cioè a migliorare la propria situazione emotiva, tirandosi fuori dall’empasse psicologica individuata attraverso lo strumento della scrittura.
Caro diario
Tenere un diario è un altro degli esercizi di scrittura raccomandati. Questa pratica spaventa molti e nel corso della vita tendiamo ad abbandonarla (se mai l’abbiamo frequentata in gioventù) poiché ci obbliga a lavorare su noi stessi in maniera puntuale. Ma è un lavoro che, sebbene alle volte arduo, ripaga sempre.
Tenere un diario è una forma d’impegno verso di sé. Una presa in carico della responsabilità della propria guarigione. O anche semplicemente del miglioramento di certe parti di noi che consideriamo un po’ insoddisfacenti e opache.
È un dato di fatto della nostra psicologia: una volta che lo si è scritto, un impegno acquista un peso maggiore dentro di noi rispetto a un buon proposito espresso solamente a voce. Quando noi riflettiamo sulla pagina, esternando pregi e difetti di un dato comportamento (nostro o altrui) stiamo facendo qualcosa di più che un semplice pensarci sopra tra un impegno e l’altro.
Cartografia del nostro sé
Scrivere, in fondo, è circoscrivere. Come provetti cartografi tracciamo i confini di un problema, li disegniamo sulla carta, ne individuiamo i rilievi e le depressioni. E infine: progettiamo strade e nuove vie di comunicazione. Per rendere il territorio della nostra anima sempre più fiorente e abitabile. Lodevole attività, non trovate?
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