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Viaggia attraverso i mondi

Pubblicato 2 anni fa

Leggi il primo capitolo di Eliador, il libro di Valentina Francolino

– Zephir, 1° pianeta dalla stella Aryos, galassia di Odessa Sideral*: 19.810.600 – 

Vespertine

I vascelli degli Anziani salparono al tramonto. Il porto di Tyrios era più grande di quanto mi fossi mai immaginata ed era a forma di falce.

Le imbarcazioni sembravano quasi scivolare sull’acqua che si increspava, allontanandosi attraverso la stretta insenatura che le avrebbe portate in mare aperto. Era da tempo che desideravo assistere alla partenza ed ora ero qui.

Mio padre mi aveva accompagnato, aveva accettato di portarmi dopo tanto tempo e tanta insistenza da parte mia fin da quando fui abbastanza grande per fare domande e comprendere le risposte.

«Padre, dove vanno?» chiesi, stringendogli forte la mano.

«Nelle terre dell’Oltre» rispose, senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte.

Sgranai gli occhi osservandole, cercando di imprimermi quel momento nella memoria. «Ritorneranno un giorno?» domandai ancora. «No, nessuno mai torna» disse. Probabilmente la bocca mi si aprì per lo stupore. “Mai” era un concetto che ancora non comprendevo appieno.

«Ma perché vanno via da qui? Scappano?» chiesi.

«No. È solo che per loro il momento di partire è arrivato» rispose. «Arriva per tutti, prima o poi».

Non so se mi piaceva quella risposta. «Andrai anche tu un giorno?» aggiunsi, non senza un filo di preoccupazione.

«Sì, un giorno andrò anche io» mi rispose quasi esitando.

Fu quello il momento in cui mi prese una consapevolezza nuova, che ancora non aveva attraversato la mia mente di bambina: cioè che tutti avevamo un destino a cui andare incontro, e per me non sarebbe stato diverso.

«Ed io?» Avevo bisogno di averne conferma, parlai e deglutii a fatica. Dapprima mio padre mi fissò negli occhi con molta concentrazione, poi lo sguardo si abbassò sulla mia mano che si aggrappava alla sua. Mi parve di sentire quasi una leggera stretta, ma forse l’ho solo immaginata.

«Anche tu» mi disse abbassando la voce e distogliendo lo sguardo.

Un po’ tremai. C’era vento, l’acqua era inquieta. Vedevo i vascelli bianchi allontanarsi, ormai avevano ampiamente superato il bacino del porto. Le genti intorno a me smisero di salutare e dire addio ai loro cari, e voltandosi si incamminarono sulla banchina verso la terraferma.

«È lì che sono andati anche i miei nonni?» chiesi.

«Sì. Ed io ero qui. E un giorno anche tu sarai qui per me e per tua madre».

Già, anche lei. Decisamente non mi piaceva questa storia.

«Ma poi… ci ritroveremo?» domandai con speranza e il cuore che mi galoppava nel petto.

«Ci ritroveremo nell’Oltre». Lo disse serenamente, come una certezza da non mettere in dubbio.

La questione però per me non era ancora conclusa.

«Ma se ci perdiamo? Se poi non ci ritroviamo…?» Volevo esserne certa, volevo una promessa. Sorrise. Poi si inginocchiò di fronte a me e mi fissò di nuovo. I suoi occhi viola non sembravano scurirsi all’apparire della sera. Parevano brillare.

Tutti gli occhi degli adulti erano viola e luccicavano.

Gli adulti sapevano far cose, cose che noi più giovani non sapevamo fare. Come far apparire oggetti, accelerare o rallentare il tempo, creare fantasie nell’aria. Parlarsi l’un l’altro nella mente. I più anziani poi, come i miei nonni, erano capaci di imprese grandiose. Avevano una risposta a qualsiasi domanda e sapevano tutto di questo mondo e non solo. Non che fossi interessata a questioni cosmologiche, allora. Ero ancora una bambina ed i grandi usavano le loro capacità più che altro per stupirci.

Il gioco che preferivo in assoluto era quando mio padre apriva le mani tenendole unite e all’interno creava una piccola fiamma, un fuocherello largo quanto un suo palmo. E poi la faceva crescere fino a illuminare tutta la stanza. La colorava dei sette colori dell’arcobaleno, uno dopo l’altro.

Io li elencavo a memoria, come una cantilena – «Rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco e violetto» – e applaudivo estasiata ad ogni virata di colore, accompagnando quella magia con urli di eccitazione e risate.

E tutte le volte mi imbattevo nell’ennesimo mistero del mondo degli adulti, il mistero per me più interessante di tutti. «Sono otto, Vespertine» mi spiegava pazientemente mio padre. «Sono otto i colori dell’arcobaleno, non sette. Un giorno anche tu vedrai l’ottavo». E la fiammella nelle sue mani perdeva di consistenza fino a sparire come la nebbia mattutina al sorgere del primo astro.

Io credevo che mi prendesse in giro; vedevo sempre e solo fino al viola.

Ma non era l’unica cosa misteriosa.

Lui ogni volta diceva il nome dell’ottavo colore. L’avrò sentito cento e cento volte. Ma io – non so proprio come mai – me lo dimenticavo.

I vascelli erano sempre più lontani, quelle piccole forme bianche che si confondevano tra le onde potevano quasi essere dei riflessi di nuvole sull’acqua.

«Dimmi Vespertine» continuò mio padre che a quanto pare era in vena di affrontare un discorso serio dopo l’altro. «Tu hai mai sentito parlare di un luogo che si chiama Eliador

Certo, ne avevo sentito parlare. Tra i bambini si mormorava di questo posto.

Nessuno però aveva idee chiare e notizie certe. Era più che altro un chiacchiericcio, una vaga idea, un pot pourri di ipotesi. C’era chi diceva fosse un luogo dove vivere delle avventure, con delle prove difficili da superare.

Secondo altri invece vi potevi vedere cose mai viste prima o ricevere degli insegnamenti. Di certo si sapeva solo che in quel posto si diventava grandi. Ma questa era un’ovvietà, lo sapevano tutti perché ci entravi con gli occhi neri dei bambini e ne uscivi con gli occhi viola che brillavano.

«So che quando ci vai si diventa come te» risposi. «Come gli adulti».

«È così. E quando sei grande non hai più paura di perderti. Non puoi» rispose infine alla mia domanda.

Quanto è strano il mondo degli adulti, pensavo, mai una cosa chiara fin da subito. Nessuna spiegazione netta, tutto sibillino. Meno male che avevo ancora parecchio tempo davanti a me, potevo non pensarci. Ero curiosa ma non troppo, a quanto pare era qualcosa di inevitabile come l’allungamento delle ossa nella crescita, ci avrei pensato a tempo debito.

«È difficile?» domandai mentre lasciavamo il porto incamminandoci verso casa ancora mano nella mano. Volevo approfittare di questo momento di confidenza per saperne di più.

«A volte. Ma tutti alla fine ci riescono. In un certo senso, in qualunque modo vada, va bene. Non esistono sbagli. E questo significa che è anche facile» mi rispose.

Mai niente di chiaro. Sospirai, alzai gli occhi al cielo e lui sorrise. Col sopraggiungere dell’oscurità Agath, la nebulosa a farfalla, incominciava ad apparire nel cielo. Ormai anche Erilon stava per tramontare.

«Capirai quando sarai più grande» disse dolcemente. «Non avere fretta». No, in effetti non ne avevo, però avrei voluto sapere.

«Quando? Quando sarò grande, padre?»

«Un giorno ci sarà un segno, e sarai pronta». «E poi potrò fare anche io la fiammella di fuoco come la tua?» Di tutto il resto non mi importava un granché, quello era ciò che più desideravo fare. Mi lasciò la mano per scompigliarmi i capelli.

«Un giorno riuscirai a creare una fiamma così intensa che illuminerà tutto ciò che ti circonda…»


Vesper

Oggi con padre siamo andati in un posto speciale. Era così bello, con tutte quelle persone, i bambini urlanti e tante emozioni, così colorate e spesse che le vedevo chiare dappertutto. C’era dolore sì, quello per gli addii. Sprazzi di grigio fosco qua e là. Ma anche tanta pace che stava sopra tutte le altre e avvolgeva ogni essere come una coltre azzurra, così densa da confondere tutto ciò che circondava con le acque e con il cielo del mattino. Osservavano i loro cari allontanarsi per sempre.

Sono cose che li uniscono. Vedevo i loro cuori che vibravano e i battiti che componevano una sinfonia unica che loro stessi non potrebbero mai sentire.

Lei era così attenta, stupita. Curiosa…

È sempre molto curiosa in effetti. Intorno a lei ci sono sempre sfumature di giallo, tranne quando dorme perché non pensa e non si fa domande. Io la osservo tutto il giorno. Mi diverte. Cerca di capire tutto, si impegna. Ha molta voglia di sapere e una fantasia che supera di gran lunga le sue conoscenze, ne ha così tanta che a volte straborda sulla realtà. Chiedeva spiegazioni a padre e lui le rispondeva come poteva.

Lo capivo, lei è ancora piccola e non tutto si può dire ad una mente semplice.

Sgranava gli occhi e apriva la bocca ad ogni risposta, è buffa quando fa così, mi trasmette sempre gioia. A volte fa la stessa espressione quando ha il viso sprofondato in un libro e qualcosa non va come se l’era immaginato.

Se ne sta seria, tutta assorta ad assorbire immagini e concetti, di solito stesa a letto sulla pancia, con i piedi in alto a oscillare ritmicamente al tono del racconto, concentrata, e poi in un attimo ecco che la fa.

E io a quel punto rido, perché la adoro quando è così. È vero che la adoro sempre. Mi dispiace solo che non mi senta, sennò lo saprebbe. Mi dispiace che non mi veda, sennò vedrebbe come la guardo. Come si può non guardare qualcuno così bello e speciale? Ogni cosa che fa mi meraviglia, ogni cosa che pensa è intelligente e accende il suo carattere di mille sfumature che solo io posso vedere.

Adesso si sta mordicchiando il labbro. È un po’ nervosa perché ha scoperto che nel futuro ci saranno anche momenti difficili. E ci pensa. Io lo so che ci penserà parecchio. Forse piangerà un pochino, di notte soprattutto.

Ci saranno giorni in cui starà più vicino del solito a madre e questo la rasserenerà. Ma poi il suo temperamento naturale avrà la meglio e ricomincerà a gioire delle piccole cose, dei tramonti, delle sue piantine, dei racconti sugli altri mondi, dei misteri inspiegabili e si lascerà tutto indietro.

Smetterà di mordersi le labbra e ricomincerà ad accarezzarsi i capelli. A farsi le trecce e a incastrarci dentro un fiore. A contare i colori e a chiedersi se davvero esista l’ottavo o se sia un’invenzione degli adulti come una storia della buonanotte.

E perché non se ne ricordi mai il nome. Farà i suoi soliti esperimenti con il piccolo cannocchiale – dono del padre – scrutando il cielo a ore diverse della giornata e in tempi atmosferici disparati, per cercare di scorgerlo da qualche parte, nel cielo. E sospirerà. È così interessante.

Mi piace così tanto guardarla, anche se lei non mi conosce e non mi parla mai. Non sa che ci sono. Non so come la prenderebbe se sapesse di me. Sgranerebbe gli occhi, quello è sicuro. Ce li ha già grandi ma riesce quasi quasi a farseli uscire dalle orbite quando scopre qualcosa.

Mi dispiace che lei non sappia, ma io so aspettare, ho pazienza. Un giorno saprà.

 

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