Sentirsi fuori uso
Pubblicato
3 anni fa
Leggi un estratto di "I Corpi Astinenti" libro di Emmanuelle Richard
C'è questo periodo, un buco nero.
Ho ventisette anni, poi ventotto, vivo una storia fragile, inserita nel contesto di un triangolo amoroso.
Una mattina, la persona con cui stavo per andare a convivere fino ad appena due giorni prima mi lascia per telefono senza nessuna spiegazione, temporanea o definitiva che sia; non ho mai creduto che per ognuno ci sia una sola persona, né al mito dell'anima gemella o simili, ma credo alla compatibilità, più o meno alta, e in quel caso, la cosa era importante.
La storia finisce proprio nel momento in cui pensavo sarebbe decollata, nel momento esatto in cui la paura di perdere quella persona era svanita.
A parte lo shock dell'abbandono, mi sento come se mi avessero colpito alla testa e bloccato in uno stato di sospensione insopportabile. Il dolore, la mancanza, l'incomprensione mi consumano. Perdo dieci chili e ogni genere di slancio vitale, perdo anche il sollievo del sonno. Rimango paralizzata.
Il mio cervello impiegherà più di due anni nel tentativo di ricostruire quello che è successo in quei due giorni, provando a definire se, di tutto quello che credevo di aver vissuto, almeno una parte fosse «vera», corrisposta, o se in realtà ero stata usata dall'inizio alla fine solo per riconquistare l'altra ragazza.
È come una specie di impasse mentale: da quel momento in poi la mia mente non si sente più al sicuro, mai, è incapace di comprendere e quindi di dormire, di dimenticare e di andare avanti, colonizzata e assalita da domande senza risposta; è possibile ritrovare questi stessi sintomi, questi interrogativi ossessivi, dopo un ghosting. Bloccato in uno stato di ipervigilanza permanente, il mio cervello resiste a ogni tipo di aiuto chimico, non accetta di mettersi in stand-by se non per un'ora a notte dopo parecchie canne e quando ormai è giorno.
Per due anni, continuo a riprodurre in testa quello che è successo come un film, cercando di vederlo sotto un'altra luce. Quando sento gli uccelli e le prime auto giù in strada, in me qualcosa si allenta.
I medici chiamano l'insieme di questi disturbi, a cui si aggiunge la perdita di appetito, «depressione reattiva». Come accade spesso a chi non ci è ancora passato e credendomi forte, ero convinta che una condizione del genere non mi avrebbe mai toccata.
Il personale medico parla anche di DSPT associato, o disturbo da stress post-traumatico. Per quanto il paragone possa sembrare indecente, quest'ultimo può essere causato da un'aggressione, uno stupro, un attentato, una morte violenta, una situazione di abuso, una malattia o un grave incidente...
Inserendo l'acronimo in un motore di ricerca, si trova subito una pagina di Wikipedia. Qui si parla dell'«insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono a un evento traumatico, catastrofico o violento».
Le capacità di adattamento si esauriscono. A mio parere, tutto questo si può riassumere o formulare in un altro modo: è possibile che questa condizione si verifichi quando per il soggetto risulta impossibile collegare una realtà a un'altra. La coerenza, e quindi ogni dopo di narrazione, diventa impossibile; e il cervello impazzisce.
Nel mio caso, può sembrare ridicolo alla luce della causa scatenante, soprattutto se si tende a minimizzare la gravità della fine di una storia d'amore; eppure, essere lasciati improvvisamente senza nessuna spiegazione può portare a questo tipo di stati mentali estremi.
Attraverso mesi di dolore indicibile, di vertiginosa carenza di contatto.
Per me, l'intimità relativa alla sessualità con un partner rappresenta anche l'unico luogo di affetto e di vicinanza. Sono una persona un po' più fisica rispetto a quanto lo ero in passato, al contrario dei miei amici che non lo sono per niente. Quando non ho una relazione, vengo privata di ogni tipo di contatto. Dopo sei anni di convivenza più questa storia, avevo dimenticato cosa significasse non essere mai avvicinata, vivere senza alcun rifugio, senza la possibilità di abbracciare qualcuno ogni tanto.
E andare su una app di incontri non fa proprio per me. Mi è già capitato di uscire con persone incontrate online. Non sono adatta a questo genere di incontri e non ne ho voglia. Sono così a disagio che il mio fascino si azzera. Soprattutto perché questa dissociazione non mi interessa più, il periodo in cui scindevo sesso e sentimenti mi sembra lontano anni luce da me; la possibilità di una complicità autentica è così minima.
Per i primi sei mesi, la mia libido c'è ancora ma si nutre solo di assenza. Quando mi masturbo non provo piacere, anzi. Le rare volte in cui succede godo per dolore misto a collera, poi scoppio a piangere. Quindi lo faccio sempre meno.
A poco a poco comincio a non sentire più niente, tranne un peso compatto sul petto quando incrocio una coppia di innamorati. Ritrovarmi seduta su uno strapuntino con persone che si tengono per mano all'interno del mio campo visivo mi risulta insopportabile, una mano su un fianco mi fa lo stesso effetto. La tenerezza degli altri ai miei occhi diventa pornografica. Per questo esco dalle metro, smetto di prendere i mezzi pubblici.
Sparisce ogni tipo di pulsione sessuale; ogni fantasia, ogni rappresentazione erotica. La sofferenza mentale invade ogni cosa, sempre. Il resto del corpo è anestetizzato. Il dolore fisico è puro, solido, invasivo, fedele compagno di ogni attimo. Le rare volte in cui cessa, nella mia testa c'è il vuoto. Il dolore fisico è discontinuo e si manifesta soprattutto in negativo. Riguarda la mancanza più concreta, «una straziante brama di contatto fisico, di carezze».* Il che non significa che è meno vivo. Questo stato dura a lungo.
Dopo una rottura (essere lasciati equivale sempre a elaborare il lutto per la perdita di una persona viva) o dopo una storia che finisce per la scomparsa di chi amiamo, è necessario un periodo di ricostruzione per riprendersi, e forse chiudere la storia dentro di sé.
Ho l'impressione che, al di là dei casi in cui veniamo lasciati, in cui perdiamo l'altra persona per una qualunque ragione - situazioni, queste, che spesso ci lasciano pieni di lividi, inadeguati, per periodi di tempo più o meno estesi -, stare bene con se stessi sia la condizione necessaria per darsi il permesso di desiderare, e quindi provare piacere e, dall'altro lato, accettare di essere considerati e guardati in un certo modo.
«È possibile provare desiderio sessuale se non si è fieri di se stessi?» si domanda Marie-France Hirigoyen nel suo libro Les Nouvelles Solitudes.
Avere stima di sé è il fondamento su cui gli altri baseranno il loro comportamento, alla luce di come noi per primi ci trattiamo.
E quello che ci raccontano, in prima persona. Lucie, Antoine e Julia, tutti e tre lasciati dai rispettivi compagni; Afia, che ha perso suo marito, il padre dei suoi figli, molto presto; Patrick e Cyril, anche loro abbandonati, con una piccola sfumatura nel caso di Cyril, per il quale le condizioni necessarie all'esercizio della sua professione hanno causato, strutturalmente, un'enorme solitudine.
Per questi ultimi uomini, la dimensione economica, il tenore di vita e l'ubicazione geografica hanno rappresentato un ulteriore freno; relativo, questa volta, alle condizioni necessarie a uno stato materiale di disponibilità nei confronti dell'altro. Dall'altra parte, oltre a isolarli o limitarli, la loro condizione sociale non ha fatto altro che respingere dei potenziali partner.
«La ripresa delle relazioni d'amore è anche legata all'immagine che si ha di se stessi», conferma David Fontaine in No sex last year?. In tutte le storie che seguono, un tempo per sé è stato o sarà necessario per assumersi di nuovo il rischio di incontrare l'alterità.
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