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Riscrivi te stesso

Pubblicato 4 anni fa

Leggi un estratto dal libro "Ricucire l'Anima" di Erica Francesca Poli e scopri come utilizzare le sue sette storie per guarire la tua anima

Questo libro è un sogno, un azzardo, un'utopia, persino. O forse è essenziale, evidente, come qualcosa che non può che essere così. Luogo non luogo, spazio segreto e sacro, come la scrittura.

Luogo dell'impossibile possibile, come il sogno. Dimensione del mutamento, di quel che si scrive e scrivendosi si trasforma.

Stai leggendo un estratto da questo libro:

Questo libro è un gioco, un rischio, un elisir. Sostanza magica, polvere d'unicorno, sapienza di monastero, dove il silenzio e la preghiera leggono l'impercettibile crescere della pianta sino alla sua fioritura, e poi, sino al tempo rigoglioso dei suoi frutti, dopo il gelido inverno.

Questo libro è legato alla trasformazione, cifra costante dell'esistenza, ci immerge nel potere creativo che abita la sofferenza, nella rigenerazione a partire dalla ferita. Parla del segreto del cambiamento. "Vorrei cambiare ma non ci riesco", "Per stare bene devono cambiare le cose", "La malattia è giunta per portare un cambiamento": parole, pensieri di ogni giorno, di ogni individuo, prima o poi.

Come si fa a cambiare? Cosa ci serve per mutare uno stato, un dolore, una sofferenza?

Nella società della téchne l'utopia sono i farmaci, o almeno lo sono stati. Nelle società del mito, quelle antiche e le poche che sopravvivono ancora oggi, erano le erbe, e prima ancora il rito, il collettivo sacro, lo stato di coscienza modificato.

E qui, in quel mondo di mezzo che è l'essere umano, sospeso tra téchne e mito, con le sue contraddizioni di corpo e spirito, quale farmaco è necessario, che sia a un tempo materiale e dematerializzato, tangibile e impalpabile? Quale cura, quale strada per cambiare, che stia al crocevia delle dimensioni di cui è fatto un uomo?

Ippocrate, discendente di Asclepio, figlio di Apollo, figlio di Zeus, cura i malati, che raggiungono l'isola grazie a un viaggio che è l'inizio della terapia, e che li conduce lontano, da casa, dal cibo concreto ed emotivo del loro ambiente, per trasportarli in un altro scenario, dove il nuovo possa germogliare dal vecchio, dove il futuro possa crearsi ancora.

Viaggio come archetipo del mutamento, come metafora del viaggio interno, quello di Dante, fino agli inferi e ritorno, per uscire dalla selva oscura, una bocca nera che si apre a metà del cammino.

A Kos, nel V secolo a.C., il viaggiatore "malato" trova erbe, medicamenti, cibi-medicina, tre tragedie e una commedia: è la terapia per tornare a essere se stessi, per compiere il viaggio verso l'ignoto, come Odisseo, per tornare a casa, in un atto creativo che, se da un lato rinnova, dall'altro riconnette all'equilibrio dell'origine.

Bizzarro connubio, questo, che abita l'essenza della malattia, che sembra giunga a distruggere per ricostruire, e, quando non distrugge del tutto, riconnette al vero Sé, prima e oltre i veli, le finzioni, le distorsioni che lo hanno falsificato così tanto da scompaginarne l'equilibrio.

Strana la genesi della malattia, mai del tutto intellegibile, amica dei bisogni inascoltati, figlia della loro inibizione, madre del loro possibile riconoscimento, che riconsegna il Sé all'autenticità, all'atto primigenio per il quale ognuno di noi è qua, lo si chiami Dio o vita.

Restituiti a quell'atto creativo, non si è più gli stessi e si è più se stessi di sempre. Un processo particolare: soffrire per tornare a essere se stessi, soffrire come espressione dell'armonia perduta e come strada per ricomporla, un movimento che nasce dalla separazione da sé e che - se non esita nella separazione totale che è perdita dell'esistenza in questa dimensione - rappresenta la più grande chance per ridare vita alla vita stessa.

E forse è del medico il compito di vegliare, prendersi cura del processo, affinché il potenziale creativo prevalga sull'impeto distruttivo.

Medicina che è scienza, ma anche arte, mistero che risuona musica di templi, polifonia di orazioni gregoriane, viaggio di medici e malati nei luoghi mitici della cura. Secoli fa, giungere a Delfi, di fronte all'oracolo, per chi aveva viaggiato a lungo, era come portare a compimento il destino: tornare indietro, fino all'utero, delphys (δελφύς), dove una donna, la Pizia, sacro tramite del dio, stava seduta sul tripode piazzato sopra una crepa del suolo.

La ferita della terra come il varco del parto: era Χάσμα, lo sbadiglio del cosmo, la voragine del suo utero da cui emerge la coscienza. Dalla crepa si sprigionavano dei vapori che potevano suscitare una sorta di trance. Accanto, Kassotis, la fonte d'acqua, alla quale abbeverarsi, per permettere la danza tra corpo e spirito, di cui l'acqua è mediatrice.

Delfi non era solo utero, era suggestione del mare oltre l'altura: non a caso richiamava nel nome il delfino, simbolo senza tempo della libertà. All'entrata del tempio, sul frontone: ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥTON, "Conosci te stesso". L'unica libertà possibile giunge dall'oracolo interiore.

A Epidauro il santuario dedicato ad Asclepio mostra ancora la geografia delle colonne che fungevano da perimetro dello spazio sacro, quello aperto ai riti collettivi e poi, più all'interno, Yahaton, "l'impenetrabile", il luogo misterioso dei sacerdoti e dei malati. Qui, dopo aver sostato, tra preghiere e purificazioni, anche per giorni, in attesa che il dio chiamasse, gli afflitti erano introdotti al rito dell'incubazione. Per sognare Asclepio o altre entità che in sogno avrebbero indicato la cura.

La strada che conduceva al tempio e il suo perimetro erano disseminati di ex voto, statue votive, dediche, formelle di argento e oro su cui il dedicante narrava il proprio sogno di guarigione, che aveva indicato la strada per compiere la trasformazione. Un'antropologia del mutamento che ripresenta gli stessi elementi: il viaggio, il sacro, il sogno o la trance, la narrazione.

E la scienza?

Ippocrate è considerato il padre di una medicina che abbandona la superstizione per divenire scienza: sono sue alcune intuizioni modernissime, come l'apoptosi, la morte cellulare programmata, un concetto tutt'oggi centrale nella comprensione della trasformazione cellulare cancerosa.

Ma Ippocrate è anche sacerdote di Asclepio, il semidio guaritore, che non appare così diverso dal Cristo nelle opere che lo raffigurano, iniziato all'arte della cura dal centauro ferito Chirone, e che, secondo tradizione, sarebbe stato formato alla scuola di Ermete Trismegisto dove le piramidi celano ancora i loro segreti di alchimia antica.

Asclepio è dio delle guarigioni e dei serpenti, simbolo eterno della circolarità del tempo e della rinascita, che può avvenire a ogni ciclo di muta della pelle. Il serpente che si attorciglia sul suo bastone rievoca anche i serpenti che strisciavano liberi nell'abaton a Epidauro, mentre i malati dormivano "sognando la guarigione".

Nessun conflitto tra sacro e scienza nella medicina di Ippocrate. Piuttosto l'abbraccio intrinseco che le unisce, là dove la scienza è venerazione del mistero della vita attraverso l'intelligenza, il viaggio incessante del ricercatore.

Il passato del nostro Occidente è più misterico di quanto pensiamo, e il bello della sofferenza è che è misterica forse più di ogni altra cosa, insieme a Eros. Per questo è creativa. Cela un mistero, ne suona la melodia nascosta e lontana, recita una poesia bisbigliata da scovare sottilmente, un collaterale di forza creativa che accende la ricerca anche là dove pare che non ci sia più strada. In questo senso, qualcosa avvicina la sofferenza all'amore, che nel Convivio di Platone è visto come figlio di Poros e Penia, la mancanza e il viaggio che si intraprende per colmarla. Misterico non significa magico, piuttosto è il sacro, cioè "avvinto al divino", secondo le sue radici etimologiche accadiche e indoeuropee. Qualcosa avvince l'uomo e la sua medicina al divino, collega la trasformazione al trascendente: per cambiare è necessario trascendere, andare oltre, superare... lasciare la muta come il serpente, ri-crearsi, ri-generarsi.

Ogni notte il nostro corpo rigenera l'armonia. Ogni notte il sistema immunitario e il sistema neuroendocrino ricostituiscono l'identità di chi siamo. Lo ha spiegato mirabilmente il neurofisiologo e psicanalista Mauro Mancia. Anni dopo avrei ritrovato la stessa idea in Tobie Nathan, con l'etnopsichiatra che getta un ponte tra antropologia e scienza per una "nuova interpretazione" dei sogni; non più divinazioni ma neppure solo materiali di scarto, come avrebbe voluto il paradigma positivista e meccanicista. Atti creativi di rigenerazione che, nottetempo, sfrondano il sé dal non sé, riconducono al progetto originario dell'unicità di ciascun individuo.

Sogno e narrazione del sogno, immagine, rêverie: al crocevia tra umano e sacro, cuspide del cambiamento, un atto potente quanto elementare. Narrare, raccontare, raccontarsi. Per tutta la vita non facciamo altro. Le fiabe della buonanotte che ci hanno raccontato al limitare della veglia sul sonno, i diari che abbiamo riempito, le foto... le iscrizioni rupestri, i dipinti e i bassorilievi, le architetture, le canzoni, i film... E oggi, sui social network, che cosa facciamo se non raccontare qualcosa di noi? Ogni attimo della nostra vita è narrato. Dentro, tra conscio e inconscio, e al di fuori, mutato, interpretato, persino mistificato e al contempo vero.

La gestazione, se non è narrata dentro la madre, rischia il pericolo del non esistere; il lutto, se non è narrato nelle lacrime, rischia la sua prematura scomparsa dentro qualche organo; il figlio, se non è narrato nella psiche dei genitori, corre lungo il filo della psicosi; il partner, se non è narrato nei tempi della sua assenza, rischia il tradimento; la famiglia, se non è narrata al piccolo, rischia l'oblio del suo mancato riconoscimento. La malattia, se non viene narrata, rischia il non detto del suo precipitare.

Onorare le storie dei pazienti è un atto medico quanto operarli chirurgicamente o somministrare loro un farmaco. La cultura imperante ha spesso dimenticato il potere delle parole e le conseguenze emotive delle storie che narriamo a noi stessi, ma noi non siamo che storie, continue storie narrate da altrettanti narratori dentro di noi.

La terapia forse non è che la narrazione della storia, sempre più dentro, sempre più vissuta, sentita, patita nel senso antico del pathos, finché la storia è stata trapassata, la pelle del serpente mutata.

Allora, se vuoi, lascia tutto, portando solo le storie, parti per Kos, per Delfi, per Epidauro, per i tuoi templi e i tuoi arcipelaghi interiori. Vieni a vedere rappresentate le tragedie e le commedie, l'infinito mondo degli archetipi che attende.

Altre storie che ti aiuteranno fino a giungere alle tue. Allora potrai ascoltare la voce lontana di un oracolo che articola suoni solo tuoi. Potrai sognare il tuo sogno, infine scriverlo, mentre invisibilmente cura.

Riscrivi te stesso. Narrati ancora, e ancora. Onora la tua storia; mentre la narri, puoi mutare. All'intersezione tra soffrire e creare c'è raccontare.


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