Questo non è un paese per giovani
Pubblicato
4 anni fa
Leggi un estratto da "Se Fosse Tuo Figlio" di Nicolò Govoni
Liscio il tavolo con i palmi delle mani e il passato si stempera verso gli angoli della stanza. L'odore di fumo torna a riempire l'aria. Nasir siede con gli occhi bassi.
«Non hai fatto nulla di male» dice Giulia.
«Sono un clandestino» constata semplicemente, sforzandosi di sorridere. «Mi deporteranno.»
«Puoi appellarti alla Corte Europea.»
«Certo» dice, facendosi forza. «Ma certo, ragazzi, funzionerà.»
Brodie tamburella con le dita sul tavolo, l'unico suono in una stanza altrimenti muta. Il sorriso di Nasir a quel punto cede. «Se la guerra in Siria non ti uccide, lo fa l'umiliazione in Europa» dice. «E questa è una morte più profonda.»
Uscendo dalla centrale di polizia, prendo una boccata d'aria fredda e ringrazio per la mia libertà. I miei passi sembrano più leggeri, ma il mio cuore è più pesante.
«Perché gli hanno rifiutato l'asilo?» chiedo. La domanda mi frulla in testa da quando l'ho conosciuto.
Giulia si accende una sigaretta. «La sua famiglia era benestante prima della guerra e, insomma, guardalo. È intelligente, di bell'aspetto e istruito. Ha trascorso quasi un anno in Turchia lavorando per pagarsi la traversata. Non lo considerano abbastanza vulnerabile.»
«Giulia» dice Melissa con esitazione, «tu hai smesso di fumare.»
«Non oggi.»
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Più tardi, mi ritrovo nella stanza che condivido con gli altri volontari, gli occhi spalancati sotto un soffitto macchiato dall'umidità. Il sonno sopraggiunge lento prima e d'improvviso poi, nello stesso modo in cui l'hotspot passa dall'essere preoccupante al rivelarsi terribile.
La mattina seguente, scaccio il pensiero di Nasir in prigione e mi preparo a una nuova settimana in classe. Devo concentrarmi su chi posso aiutare.
Dopo aver memorizzato l'alfabeto, oggi gli studenti impareranno a scrivere il loro nome. Sarah e io abbiamo preparato le lezioni con cautela, organizzandole giorno per giorno.
Va tutto a monte quando la stanza numero 4 si trasforma in un campo di battaglia: la canzone dell'alfabeto esplode in una rissa tra arabi e curdi. Soran schiaffeggia Mallik e Hammudi solleva uno sgabello sopra la testa, pronto a colpire. Mays e le altre bambine li guardano restando in piedi, con la schiena al muro.
Le urla di Sarah si rivelano inutili, davanti alla furia cieca della classe: lo sgabello vola, un bambino cade a terra e inizia a piangere. Devo intervenire separandoli fisicamente.
Ho lavorato con i minori per anni e ho visto innumerevoli litigi, ma questo è diverso. Non si tratta di un'azzuffata tra ragazzini. La loro è una brutalità che trascende l'età anagrafica: hanno dieci, dodici anni, ma dentro covano il rancore, il rimpianto e la disperazione degli adulti.
Quando dividiamo i bambini coinvolti nella rissa, Sarah si ferma a parlare con Soran e Mallik. Io porto fuori Hammudi e lo faccio sedere nella sala comune del Centro Alpha. Il baccano di dozzine di uomini che giocano a scacchi e bevono tè mi impedisce quasi di sentire la mia stessa voce.
«Cosa è successo?»
Hammudi volta il capo dalla parte opposta.
«Per favore, parlami. Perché hai lanciato lo sgabello?»
Il suo petto si alza e si abbassa a ritmo frenetico, le lacrime gli rigano il volto. Stringe i pugni fino a farsi sbiancare le nocche.
«Sei al sicuro, qui» dico. «Capito?»
Hammudi chiude gli occhi. Il suo corpo siede davanti a me, ma lui è lontano anni luce. Lo guardo e vedo il lento disfacimento di un essere umano. Perché dovrebbe fidarsi di me?
«Torniamo dentro» dico con un sospiro.
Lui resta immobile, di nuovo senza guardarmi, ma quando entro in classe tengo la porta aperta e lui mi segue.
Trovo Mays con le spalle al muro, proprio come l'avevo lasciata. Mi guarda e pare voler dire: "Siamo davvero al sicuro, qui?". Vorrei avere una risposta, ma la verità è che non lo so. In giorni come questo, creare un'alternativa sicura all'hotspot per questi bambini sembra un obiettivo impossibile.
Ho fatto forse il passo più lungo della gamba, cercando di trasformarli in qualcosa di simile a una classe?
Chiedo consiglio a Neda, una volontaria di origini iraniane, emigrata da bambina negli Stati Uniti, che si è da poco unita al gruppo.
«Risolvere la tensione etnica nella tua classe?» mi dice. «Ah! Non puoi. Spesso, quando lavoriamo con persone che soffrono e ci stanno a cuore, ci bendiamo gli occhi davanti alle loro lacune.»
«Non capisco.»
«Vedi, Nicolò, a volte lavorare con queste persone non fa altro che allontanarmi da loro. Ci sono quelli che danno tutto per scontato e pretendono di più; altri che non capiranno mai perché opprimere le loro donne o picchiare i loro figli sia sbagliato... E sono la mia gente.» Le sue parole mi fanno sentire a disagio. «È essenziale differenziare tra cultura e religione. La religione è un'idea, la sua interpretazione varia da persona a persona. Ma la cultura viene dalla terra, ed è radicata in ognuno di loro allo stesso modo.»
«Stai dicendo che non posso insegnare ai ragazzi a non tirarsi le sedie?»
«Sto dicendo che l'Islam non è una religione violenta, ma il Medio Oriente è una terra violenta. Saranno pochissime le persone che riusciranno a integrarsi davvero in Europa. Il resto trascorrerà la propria vita rintanato in casa - se sono donne - e ammazzandosi di lavoro - se sono uomini.»
«I bambini sono diversi» dico. «Hanno tutta la vita davanti.»
«Sono d'accordo. I bambini sono gli unici ad avere una possibilità di trovare la felicità in Europa, ma stanno marcendo nell'hotspot giorno dopo giorno.»
Mi tornano in mente le lacrime amare di Hammudi. «In un campo profughi, a dodici anni sei già vecchio» sussurro, quasi tra me e me.
«Cosa dici?»
La guardo per un momento. «Che non posso darli per persi.»