Paziente: qual è il significato?
Pubblicato
3 anni fa
Leggi alcune pagine del libro “Relazione Medico-Paziente” di Elsa Roberta Veniani
Partiamo dal significato del termine "paziente", riferito a chi si affida alle cure di un medico per cercare soluzione a un problema che sta minando la propria salute.
L'etimologia di questa parola ci conduce al latino patiens, participio presente di pati che significa "soffrire". Ma la parola "paziente", come aggettivo, ci riporta anche a un altro senso: colui che è incline alla sopportazione.
Paziente quindi come persona che sta sperimentando la sofferenza e sta sopportando ogni disagio che da essa deriva.
Dato che l'intento di questo testo è quello di offrire una nuova prospettiva alle parti in gioco nella relazione medico-paziente, non posso che sentirmi chiamata a dare una diversa interpretazione al termine "paziente".
Le parole hanno un peso enorme nella quotidianità di tutti noi e possono diventare come macigni gettati sopra un cuore già poco, o per nulla, considerato nel nostro modo di vivere attuale.
Qualsiasi definizione ha il pregio di offrire un significato alla mente razionale che senza dubbio ha necessità di comprendere, ma al contempo limita l'espressione del cuore che si sente così intrappolato dentro una gabbia di senso dalla quale non ha possibilità di uscire e che influisce in maniera determinante sull'aspetto della cura e della guarigione.
La differenza tra dolore e sofferenza
In realtà è bene fare una distinzione tra dolore e sofferenza. Non ringrazierò mai abbastanza la dottoressa Erica Francesca Poli, che mi ha assistito a seguito di una diagnosi di fibromialgia, per avermi mostrato la potenza di cui le parole sono intrise e la differenza che comporta sulla nostra psiche il saperle utilizzare.
Ma alla forza che i termini racchiudono e all'importanza delle modalità con cui vengono espresse, impiegate e comunicate, dedicherò un apposito capitolo.
Colui che è affetto da una malattia non necessariamente fa esperienza del dolore, soprattutto in una fase iniziale di certe patologie che vengono diagnosticate da un esame clinico senza che il paziente abbia ancora avvertito alcun disturbo a livello fisico.
Eppure certamente non esiste paziente che al momento della comunicazione di una diagnosi, non sperimenti la sofferenza, seppur in differenti stadi, gradi e modalità.
- Il dolore rappresenta il mezzo con cui il nostro organismo segnala un problema a livello corporeo ed è il risultato dell'attivazione di una particolare classe di recettori periferici specializzati nel riconoscere stimoli in grado di produrre potenzialmente o concretamente un danno tissutale.
- La sofferenza ha invece a che fare con il volersi opporre a fare l'esperienza del dolore.
Mi spiego meglio con un esempio: quando inavvertitamente colpiamo un dito con un martello, mentre tentiamo di fissare un chiodo al muro, ci limitiamo a vivere la percezione del dolore che, per quanto intensa possa essere, non ci causa sofferenza, dato che abbiamo la certezza che con qualche piccolo e immediato accorgimento potremo sicuramente lasciare che il dolore scemi, senza che questo accadimento intervenga a "disturbare" la nostra routine e il nostro incedere quotidiano.
Ben diversa è la situazione in cui viene comunicata una diagnosi di malattia perché la malattia, anche se a diversi livelli in base alla patologia da cui si è affetti, rappresenta nella nostra società un problema.
Un'ulteriore questione di cui occuparsi fra le altre mille che la vita ci costringe ad affrontare. Un impedimento lungo il nostro cammino da dover risolvere, possibilmente in fretta, così da poter procedere spediti nella direzione che crediamo essere l'unica da seguire per il nostro bene.
Malattia = problema da risolvere
È questa equazione, malattia = problema da risolvere, a generare la sofferenza e non il dolore in sé che la patologia può scatenare.
Vi garantisco perché l'ho sperimentato personalmente, che quando il malato rimuove l'unico obiettivo che ha in mente, vale a dire eliminare il dolore e guarire dalla malattia, la sofferenza smette man mano di accompagnarlo lungo il suo sentiero, lasciando posto a un nuovo e sorprendente incedere.
La sofferenza, se gli viene concesso, ha il potere di ingurgitare ogni nostra energia, offusca ogni visione, diventa il principale nutrimento della nostra mente, invade ogni nostro spazio vitale, toglie speranza, strugge sogni, alimenta pensieri depotenzianti e abbassa le nostre difese immunitarie.
Cosa crea sofferenza, nell'ambito a cui mi sto riferendo?
Dichiarare guerra alla malattia e al dolore che, in moltissime patologie, spesso la accompagna.
E cosa è la guerra se non un'enorme dispersione di energia orientata a distruggere anziché creare?
Come vive un soldato che sta combattendo una battaglia? Vive in uno stato d'ansia perenne che lo risucchia dentro una spirale che lo conduce sempre più in basso, costringendolo a vivere nel puro e solo piano della sopravvivenza. Non perdere la vita diviene l'unico obiettivo. E quando sei intento e occupato solamente a sconfiggere il nemico che minaccia la tua esistenza, ti scordi di fare l'unica cosa che mai un essere umano dovrebbe dimenticare:
vivere, manifestando la propria unica e peculiare essenza!
È bene che i medici spieghino ai propri pazienti che la malattia non è una dichiarazione di guerra da parte della vita! Ricordiamoglielo! E se non ne sono consapevoli, come non Io ero io, rendiamoli edotti!
La malattia è un'esperienza nel gioco della vita che può rappresentare una grandissima opportunità per poter finalmente incontrare se stessi.
La malattia è un'entità che è venuta a farti visita; il medico dovrebbe accompagnare il paziente ad accoglierla, a sentirla, in tutto il suo devastante dolore se
necessario.
Rieducare al sentire
Nel saper ospitare il dolore che si nasconde la più potente arma di guarigione, quindi non rieduchiamo noi stessi all'ascolto, al sentire anche ciò che non si vorrebbe.
È nel restare lì, a contatto con le lacrime, con la disperazione, con il senso di impotenza che si cela la forza per liberare se stessi.
E se c'è una cosa dalla quale il medico non dovrebbe mai esimersi è proprio quella di stare accanto al paziente in questo processo, fargli sentire che non è solo!
Una domanda mi sorge spontanea: ma ai medici questo viene insegnato?
Prendere per mano un paziente è una questione estremamente delicata e lo dico propria in veste di paziente.
È una danza che si gioca su un filo sospeso nell'esistenza che si è chiamati ad attraversare. E quel passaggio lo compiono entrambi gli attori in scena, medico e paziente, ognuno al proprio livello di espressione.
Occorre saper offrire sicurezza a chi sta sperimentando la malattia ma quel tanto che basta affinché il paziente impari ad affidarsi anche a se stesso; donargli sostegno, impedendogli però di lasciare che destini ogni sua forza a rimanere aggrappato al terapeuta; sollecitarlo a compiere qualche passo, lasciando che poi sia lui a volerli muovere in base al proprio sentire; indicargli la direzione senza mai imporgli una via; non solo dipanare di fronte ai suoi occhi ciò che mai era riuscito a vedere, bensì allenarlo a guardare lui stesso con una nuova visione, in modo che impari a scrutare oltre ogni apparenza o significato imposto.
Liberato il "paziente" dal significato intrinseco cui la parola sembra inchiodarlo, mostrando che non necessariamente sia destinato a sperimentare la sofferenza o che, quantomeno, la possa vedere come opportunità e non come una condanna, mi occupo dell'altro senso che si cela dentro questo termine, quando utilizzato come aggettivo.
Paziente: colui che sa sopportare
Nell'ambito di cui sto trattando, "paziente" è colui che sa quindi sostenere il peso di una malattia.
Che effetto vi fa leggere questa frase? A me personalmente, in veste di persona a cui è stata comunicata una diagnosi di fibromialgia, rimanda a un senso di fatica immane. Qualcosa che non solo ti priva di ogni forza, ma che comprime, fino a generarti un senso di soffocamento che toglie persino i l respiro.
Sentirsi chiamati a sopportare una malattia ci relega a rappresentare il ruolo di vittime sul palcoscenico della vita, pervasi dalla sensazione di essere preda di un destino avverso che ci ha riservato una specie di castigo per chissà quale colpa commessa.
Sensazioni e conseguenti emozioni che ci conducono nella direzione opposta rispetto alla guarigione.
Per quanto mi riguarda il termine "paziente", riferito a chi è affetto da una patologia, dovrebbe avere una sola connotazione: colui che sa esercitare la pazienza.
Pazienza intesa come virtù, come disposizione d'animo di cui trovo una splendida e magistrale definizione nelle parole della dottoressa Erica Francesca Poli:
"La pazienza di cui parlo attiene alla dimensione della determinazione. Non ha nulla a che vedere con la rassegnazione e con l'illusione. La pazienza ha a che vedere con il saper vedere in avanti, oltre le apparenze, oltre ciò che pensiamo di sapere, vedere con gli occhi dell'anima e dell'intuito. La pazienza ha a che fare con il cervello del cuore, quello che sa cosa è buono o meno per noi."
Ecco che allora il paziente deve avere la capacità di saper vedere oltre la malattia, persino oltre la morte; condurlo dentro questa nuova. Consapevolezza non può che essere compito del terapeuta.
Guardare oltre la malattia significa spostarsi verso l'alto per guadagnare così un nuovo piano da cui osservare non solo l'esperienza del dolore che si sta attraversando, bensì l'intera esistenza.
Significa avere una visione d'insieme, esattamente come quando si sale in cima a una montagna e ogni nostra percezione non è rapita da un singolo dettaglio ma dall'intero paesaggio cui ci si trova di fronte.