Ombre da un passato dimenticato
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4 anni fa
Leggi un estratto da "Traumi e Shock emotivi" di Peter A. Levine e scopri come uscire dall'incubo di violenze, incidenti ed esperienze angosciose
«...la nostra mente ha ancora le sue più oscure Afriche, il suo Borneo e i suoi bacini delle Amazzoni non registrati dalle carte geografiche». Aldous Huxley, Paradiso e Inferno, Mondadori, Milano, 1996
I piani della natura
Un branco di impala sta pascolando tranquillamente in un wadi dalla lussureggiante vegetazione. All'improvviso, il vento cambia direzione, portando un odore nuovo ma familiare. Gli impala percepiscono il pericolo nell’aria e diventano subito tesi, pronti a reagire al minimo allarme. Per qualche istante annusano, osservano e ascoltano attentamente, ma se la minaccia non compare riprendono a pascolare, rilassati ma vigili.
Un ghepardo furtivo approfitta dell’occasione e balza fuori dal suo nascondiglio fra gli arbusti. Come se fosse un organismo, il branco si precipita verso un folto d’alberi ai margini del wadi. Un giovane impala incespica per una frazione di secondo, poi si riprende. Ma è troppo tardi. Simile a una macchia sfocata, il ghepardo spicca un balzo verso la vittima designata e l’inseguimento si accende a una velocità fra le sessanta e le settanta miglia all’ora.
Al momento del contatto (o appena prima), il giovane impala cade al suolo, in una resa alla morte incombente. E tuttavia potrebbe non essere ferito. L’animale perfettamente immobile non finge di essere morto; è entrato istintivamente in uno stato alterato di coscienza, stato che viene assunto da tutti i mammiferi quando la morte sembra imminente. Molte popolazioni indigene considerano questo fenomeno come una resa dello spirito della preda al predatore, il che in un certo senso è vero.
I fisiologi chiamano questo stato alterato reazione di “immobilità” o di “irrigidimento”. E una delle tre risposte primarie alla portata dei rettili e dei mammiferi che si trovano a dover affrontare una minaccia opprimente. Le altre due, il combattimento e la fuga, ci sono molto più familiari. Si sa poco sulla reazione di immobilità. Eppure il mio lavoro di questi ultimi venticinque anni mi ha portato a credere che si tratti proprio del fattore più importante per svelare il mistero del trauma umano.
La natura ha sviluppato la reazione di immobilità per due buone ragioni. Da un lato, serve da ultima disperata strategia di sopravvivenza. Può essere una buona idea fingersi morti. Prendete per esempio il giovane impala. Esiste la possibilità che il ghepardo decida di trascinare la sua preda “morta” in un luogo al sicuro da altri predatori; o fino alla sua tana, dove potrà condividere il cibo con i suoi piccoli.
In questo periodo, l’impala potrebbe svegliarsi dal suo stato di immobilità e approfittate di un momento di distrazione per tentare una rapida fuga. Una volta fuori pericolo, l’animale si scuoterà letteralmente di dosso gli effetti residui della reazione di immobilità, recuperando il pieno controllo del suo corpo. Tornerà quindi alla sua vita normale come se niente fosse accaduto. Dall’altro lato, irrigidendosi, l’impala (e l’uomo) entra in uno stato alterato in cui non si prova dolore. Ciò significa per l’impala che non dovrà soffrire mentre verrà sbranato dagli artigli e dai denti affilati del ghepardo.
La maggior parte delle culture moderne tendono a giudicare questa resa istintiva di fronte a una minaccia opprimente come una debolezza equivalente alla codardia. A ogni modo, questo giudizio nasconde una profonda paura dell’immobilità da parte degli esseri umani. La evitiamo perché è una condizione molto simile alla morte. Questo rifiuto è comprensibile, ma lo paghiamo caro. L’evidenza fisiologica mostra chiaramente che la capacità di entrare e uscire da questa reazione naturale è la chiave per evitare gli effetti debilitanti del trauma. E un dono che ci fanno gli animali selvatici.
Perché guardare agli animali selvatici? Il trauma è fisiologico
«Con la stessa certezza con cui sentiamo il sangue nelle orecchie, l’eco di un milione di urla di scimmie nel cuore della notte, la cui ultima visione del mondo furono gli occhi di una pantera, ha lasciato le sue tracce nel nostro sistema nervoso». Paul Shepard
La chiave per curare i sintomi traumatici negli esseri umani è nella nostra fisiologia. Quando si trovano di fronte a qualcosa che percepiscono come una minaccia inevitabile e opprimente, animali e uomini usano la stessa reazione di immobilità. La cosa importante da capire a proposito di questa funzione è che è involontaria. Ciò significa semplicemente che il meccanismo fisiologico che governa questa reazione risiede nelle parti primitive e istintive del nostro cervello e del nostro sistema nervoso, e non si trova sotto il nostro controllo cosciente. Per questo motivo ritengo lo studio del comportamento degli animali selvatici indispensabile per la comprensione e la guarigione del trauma umano.
Le parti involontarie e istintive del cervello e del sistema nervoso umani sono in pratica identiche a quelle dei mammiferi e persino a quelle dei rettili. Il nostro cervello, spesso chiamato cervello uno e trino, è costituito da tre sistemi integrali. Queste tre parti sono comunemente note come cervello rettile (istintivo), cervello mammifero o limbico (emozionale) e cervello umano o neocorteccia (razionale).
Dal momento che le parti di cervello attivate quando si percepisce una situazione che mette a repentaglio la vita sono quelle che abbiamo in comune con gli animali, possiamo imparare molto studiando come certi animali, come gli impala, evitano la traumatizzazione. Per andare ancora più avanti, credo che la chiave per la guarigione dei sintomi traumatici si trovi nella nostra capacità di riflettere l’adattamento fluido degli animali selvatici quando escono e passano attraverso la reazione di immobilità per riacquistare la piena mobilità e funzionalità.
A differenza degli animali, noi esseri umani, quando ci sentiamo minacciati, non troviamo mai facile risolvere il dilemma se lottare o scappare. Questo dilemma deriva almeno in parte dal fatto che la nostra specie ha rivestito sia il ruolo della preda che del predatore. Nella preistoria gli uomini, benché molti fossero cacciatori, trascorrevano ogni giorno parecchie ore stretti insieme in fredde caverne, assolutamente consapevoli di poter essere assaliti e sbranati da un momento all’altro.
Le nostre probabilità di sopravvivenza aumentarono quando cominciammo a radunarci in gruppi più grandi, scoprimmo il fuoco e realizzammo degli attrezzi, di cui molti erano armi da usare per la caccia e l’autodifesa. Tuttavia il ricordo genetico dell’essere stati facili prede permane nel nostro cervello e nel nostro sistema nervoso. Essendo privi sia della sveltezza di un impala che delle zanne e degli artigli letali di un superbo ghepardo, i nostri cervelli umani spesso sottovalutano la nostra capacità di intraprendere azioni in grado di salvarci la vita. Questa incertezza ci ha resi particolarmente vulnerabili ai possenti effetti del trauma. Gli animali come l’agile e veloce impala sanno di essere delle prede e conoscono intimamente le loro risorse di sopravvivenza. Sentono che cosa devono fare e lo fanno. Nello stesso modo, lo sprint scattante di settanta miglia all’ora del ghepardo, le sue zanne e i suoi artigli temibili ne fanno un predatore sicuro di sé.
La linea di demarcazione non è altrettanto chiara per l’essere umano. Quando si trova a dover affrontare una situazione di minaccia per la sua vita, il nostro cervello razionale può confondersi e non tener conto dei nostri impulsi istintivi. Anche se questa prevaricazione sugli impulsi può essere fatta per una buona ragione, la confusione che l’accompagna crea il palcoscenico per quello che io definisco il “complesso di Medusa” - il dramma del trauma.
Come nel mito greco di Medusa, la confusione umana che può scaturire mentre guardiamo in faccia la morte è in grado di trasformarci in pietre. Possiamo letteralmente irrigidirci per la paura, e questo come risultato genererà sintomi traumatici.
Il trauma è un fatto dilagante nella vita moderna. La maggior parte di noi è stata traumatizzata, non solo i soldati o le vittime di maltrattamenti o attacchi. Sia le origini che le conseguenze del trauma sono di vasta portata e spesso restano celate alla nostra consapevolezza. Esse comprendono ovviamente le sciagure naturali (per esempio terremoti, tornado, alluvioni e incendi), l’esposizione alla violenza, gli incidenti, le cadute, le malattie gravi, le perdite improvvise (per esempio di una persona cara), le procedure chirurgiche e qualsiasi altra procedura necessaria di genere medico o dentistico, i parti difficili e anche gli elevati livelli di stress nel corso della gestazione.
Fortunatamente, essendo esseri istintivi con la capacità di sentire, reagire e riflettere, abbiamo il potenziale innato per curare anche le lesioni traumatiche più debilitanti. Sono anche convinto che come comunità umana globale possiamo iniziare a guarirci dagli effetti dei traumi sociali su vasta scala, come le guerre e i disastri naturali.
Si tratta di energia
I sintomi traumatici non sono generati dall’evento scatenante stesso. Sono causati dal residuo congelato di energia che non è stato risolto e scaricato; questo residuo resta intrappolato nel sistema nervoso, dove può causare distruzione nel nostro corpo e nel nostro spirito. I sintomi di PTSD a lungo termine, allarmanti e spesso bizzarri, si sviluppano quando non riusciamo a completare il processo di entrata, attraversamento e uscita dallo stato di “immobilità” o di “irrigidimento”. Tuttavia possiamo scongelarci avviando e stimolando il nostro impulso innato a ritornare in uno stato di equilibrio dinamico.
Torniamo all’inseguimento. L’energia nel sistema nervoso del nostro giovane impala che sta fuggendo dal ghepardo che gli dà la caccia è scagliata a settanta miglia orarie.
L’impala collassa proprio nell’attimo in cui il ghepardo compie il balzo finale. Visto dall’esterno, sembra immobile e privo di vita, ma all’interno il suo sistema nervoso è ancora scagliato a settanta miglia all’ora. Anche se è giunto a un punto morto, ciò che sta avvenendo ora nel corpo dell’impala è simile a quanto si verifica nella vostra auto quando premete a fondo l’acceleratore e nello stesso tempo frenate. La differenza fra la corsa interna del sistema nervoso (motore) e l’immobilità esterna del corpo (freno) produce nel corpo una forte agitazione, simile a un tornado.
Questo tornado di energia è il punto focale da cui si formano i sintomi di stress traumatico. Per aiutarvi a visualizzare la potenza di questa energia, immaginate di fare l’amore con il vostro partner e di essere sull’orlo dell’orgasmo quando, all’improvviso, una forza esterna vi blocca. Ora moltiplicate per cento quella sensazione di trattenimento; in questo modo vi avvicinerete alla quantità di energia scatenata da un’esperienza che mette in pericolo di vita.
Un essere umano (o un impala) minacciato deve scaricare tutta l’energia mobilitata per negoziare quella minaccia, altrimenti diventerà una vittima del trauma. Questa energia residua non se ne va semplicemente: permane nel corpo, e spesso impone la formazione di una grande varietà di sintomi, quali ansia, depressione, nonché problemi psicosomatici e comportamentali. Questi sintomi sono la modalità dell’organismo di contenere (o di rinchiudere) l’energia residua non scaricata.
Gli animali selvatici scaricano istintivamente tutta la loro energia compressa e raramente sviluppano sintomi sfavorevoli. Noi esseri umani non siamo così abili in questo campo. Quando non siamo in grado di liberare queste potenti energie cadiamo vittime del trauma. Nei nostri tentativi, spesso fallimentari, di scaricare queste energie, può succedere che ci fissiamo su di esse. Come una falena attratta verso una fiamma, possiamo creare inconsciamente e ripetutamente situazioni in cui esiste la possibilità di liberarci dalla trappola del trauma, ma senza gli strumenti e le risorse adeguati la maggior parte di noi non riesce. Il triste risultato è che molti di noi si ritrovano pieni di paura e di ansia, e non sono mai veramente in grado di sentirsi a proprio agio con se stessi e con il mondo.
Molti veterani di guerra e vittime di stupro conoscono anche troppo bene questa situazione. Possono passare mesi o addirittura anni a parlare delle loro esperienze, a riviverle, esprimendo la propria rabbia, paura e dolore, ma se non passano attraverso le “reazioni di immobilità” primitive e non rilasciano l’energia residua, rimarranno perlopiù intrappolati nella confusione traumatica e continueranno a provare dolore.
Per fortuna le stesse immense energie che creano i sintomi di trauma possono, se impegnate e mobilitate opportunamente, trasformare il trauma e spingerci verso nuove vette di guarigione, padronanza di noi stessi e persino saggezza. Il trauma risolto è un grande dono, che ci riporta al mondo naturale del flusso e del riflusso, dell’armonia, dell’amore e della compassione. Avendo trascorso gli ultimi venticinque anni lavorando con persone che hanno subito traumi di ogni genere, credo fermamente che noi esseri umani disponiamo della capacità di guarire non solo noi stessi, ma anche il nostro mondo, dagli effetti debilitanti del trauma.