Esperienze di premorte: e se ne avessi avuta una anche tu?
Pubblicato
2 anni fa
Cosa sono, perché la scienza le studia e come cambiano la vita di chi le prova
Le esperienze di premorte o Near Death Experience (NDE) sono una serie di esperienze vissute in condizioni cerebrali critiche, associate alla perdita di coscienza come l’arresto cardiaco, i politraumi, il trauma cranico, gli stati di shock (anafilattico, cardiaco, emorragico, settico).
Narrate da secoli da scrittori, studiosi e filosofi, la scienza ha iniziato da pochi decenni a prenderle in considerazione, soprattutto grazie al lavoro di Rayomond Moody, conosciuto in tutto il mondo come lo scienziato dell’aldilà. Oggi sappiamo che le NDE sono decisamente più frequenti di quanto si possa pensare, dato che interessano tra il 5 e il 18% dei pazienti in condizioni critiche. Per capire meglio la fenomenologia di queste esperienze e cosa possono dirci sul funzionamento del cervello e della coscienza abbiamo incontrato Enrico Facco, medico e professore universitario, che è il più autorevole esperto italiano sul tema.
Che cosa sono le esperienze di premorte?
Le esperienze di premorte sono quelle di chi si trova in prossimità della morte, ma non muore, e sono descritte fin dall’antichità. Qualche frammento lo troviamo anche in Omero. Troviamo un caso mitico, simbolico, ben descritto nel Mito di Er di Platone: si tratta di un soldato che, ritenuto morto e messo sulla pira per essere bruciato, già morto da giorni, a un certo punto si rianima, riprende e racconta tutto quello che ha visto mentre era morto, anzi apparentemente morto, perché un morto non ritorna più indietro. È un bellissimo racconto, ovviamente simbolico e da interpretare in modo corretto, nel senso che non è un report di fatti realmente accaduti.
Le esperienze di premorte sono diventate casi di studio e ricerca negli anni Settanta ad opera del lavoro del medico e filosofo Raymond Moody. Oggi su questo argomento ci sono molti lavori medici, clinici, anche prospettici, rigorosi. È un argomento di cui ancora non si sa tutto e che lascia aperti molti interrogativi. Su alcuni aspetti, soprattutto nell’interpretazione, il problema rimane aperto, ma possiamo certamente dire che si tratta di un fatto clinico, con la sua precisa fenomenologia e, come tale, non è materia di fede ma oggetto di studio scientifico.
Quando si verificano con maggiore frequenza?
Le esperienze di premorte hanno un contenuto apparentemente trascendente, con qualche elemento che appare un po’ mistico, e avvengono in pazienti che hanno perso coscienza in condizioni critiche. Possono succedere nel coma di qualsiasi origine, ma più frequentemente – sono peraltro i casi più studiati – dopo arresto cardiaco. Prima la persona è completamente cosciente; poi ha un periodo di assenza di circolazione cerebrale che porta al coma; successivamente si riprende e il suo cervello può avere subito o meno dei danni.
Le persone che cosa raccontano quando hanno queste esperienze?
Per quanto riguarda le esperienze, ognuno ha la propria: vanno da una cosa minima a livello di contenuto, fino a esperienze estremamente ricche e complesse, che sono quantificabili, come intensità, usando la Scala di Greyson, che è stata messa a punto negli anni Ottanta. È una scala con molte domande, alle quali il paziente risponde circa i temi principali che può avere incontrato. Si parla di esperienze di premorte se il punteggio di questa scala supera il 6-7, altrimenti l’esperienza vissuta non si considera di intensità tale da essere di rilievo clinico.
Ognuno ha dunque la propria esperienza, che contiene elementi individuali e personali. Altri temi invece sono pressoché universali e sono descritti in tutte le culture e in tutti i paesi del mondo. Gli elementi principali sono:
- la visione di un tunnel, con o senza una luce in fondo;
- passare attraverso il tunnel, uscendo dal proprio corpo;
- vedere il proprio corpo dall’alto, mentre viene rianimato;
entrare in un paesaggio “trascendente” come aspetto, in cui la luce non è né quella solare, né quella artificiale che conosciamo noi, ma ha caratteristiche diverse, dove si possono avere diverse esperienze e dove spesso avviene un incontro, o con i parenti defunti o anche amici defunti, oppure con entità non meglio definite, che frequentemente vengono chiamate “esseri di luce”, si tratta però di entità che non hanno le caratteristiche dell’iconografia della religione di appartenenza, se non in una minoranza di casi.
Durante questa esperienza, un altro elemento importante è quello della revisione olografica della propria vita, una specie di sintesi: si tratta di un attimo in cui la persona vede tutta la propria vita, ma non i fatti principali che noi consideriamo con la nostra visione ordinaria (ad esempio la laurea, il matrimonio, il lavoro, la carriera), ma qualsiasi avvenimento, anche quelli più banali, della vita di tutti i giorni, ma che per il paziente possono avere un significato. Si tratta di una specie di bilancio, di riassunto. Un altro elemento abbastanza frequente è rappresentato dal fatto che avviene un incontro con una figura con cui si comunica in maniera non ordinaria, quasi telepaticamente. Questa figura comunica alla persona di dover tornare indietro, che la sua missione sulla Terra non è ancora finita, anche se spesso la persona è attratta dal luogo in cui si trova e vorrebbe rimanere lì.
Cosa accade alle persone che vivono una NDE quando si risvegliano?
Vivere una NDE può avere un grosso impatto trasformativo, che porta il paziente a scoprire nuovi valori a cui prima non dava importanza. Si tratta, per lo più, del fatto di non essere più attaccati al denaro, alla carriera, ai beni materiali, e di cominciare a riscoprire i valori fondamentali della vita, con uno sviluppo in senso spirituale come evoluzione personale. Sono quindi esperienze che hanno un effetto che si estende molto oltre la singola esperienza e che ha un impatto importante nell’economia dell’esistenza della persona.
La scienza come spiega il fatto che ci siano degli elementi ricorrenti in questi racconti?
Se sapessi il perché e il percome e potessi dare una spiegazione razionale, logica-analitica ed eziologica di ogni elemento di queste esperienze, forse mi candiderei per il Premio Nobel per la medicina! I fatti sono questi. Il problema qual è? Nel secolo scorso queste esperienze sono state trascurate, perché la visione della scienza è soprattutto meccanicista e riduzionista, cerca di capire i meccanismi di base, ma il significato dell’esperienza si situa in un’altra dimensione, che non è quella di questo paradigma. Nella visione dominante, che è fondamentalmente materialista, tutto ciò che ha sapore di trascendenza, di aldilà o di altra vita, evoca una certa resistenza. Per questo le esperienze di premorte sono state a priori considerate come un fatto psichiatrico, prodotto da alterazioni cerebrali o dai farmaci usati. Queste interpretazioni iniziali non hanno alcun riscontro nella realtà, non c’è nulla che sia dimostrato. Forse non riusciremo mai a dimostrare nulla, anche perché non puoi prendere un paziente in arresto cardiaco e metterlo sotto una risonanza magnetica o fare un montaggio per l’encefalogramma per vedere cosa succede mentre lo rianimi: non c’è il tempo materiale per farlo, non è possibile.
Tutto ciò che è esperienza va analizzato anche nel mondo dell’esperienza, con i suoi significati. L’atteggiamento materialista di ridurre a priori il contenuto dell’esperienza e della mente a circuiti cerebrali è utile per conoscere come funziona il cervello e quali sono le basi neurofisiologiche, ma non esaurisce il problema, perché quello che conta è l’esperienza che faccio nella vita reale.
Ad esempio, una delle interpretazioni proposte in passato è quella secondo cui, in condizioni di stress, si può alimentare la liberazione di oppioidi endogeni. Gli oppiodi danno sedazione e quindi quel senso di pace profonda, di serenità che ritroviamo nelle esperienze di premorte, però di questo non c’è alcuna dimostrazione. Non solo: se fosse così, i pazienti che fanno la terapia con gli oppiodi per tumori, per dolori ecc., dovrebbero essere più predisposti a questo tipo di esperienza, invece non è così. Peraltro, se capita che gli oppioidi abbiano degli effetti collaterali, danno un delirium completamente diverso dalla sensazione di pace e benessere che invece c’è nelle esperienze di premorte.
Viceversa, il delirio prodotto da lesioni cerebrali o da farmaci in terapia intensiva è ben conosciuto e ha un quadro clinico che è totalmente diverso. Non c’è un solo elemento in comune con le esperienze di premorte. Quindi ridurre uno all’altro è come cercare di incasellare in dei meccanismi che già conosciamo qualche cosa che ci sfugge.
Eppure se queste esperienze hanno un profondo impatto trasformativo e portano a una maggiore consapevolezza della visione del mondo, più orientata spiritualmente, questo fatto è estremamente importante e non possiamo ridurlo solo a un evento meccanico di neuro trasmettitori o di circuiti cerebrali senza che abbia un significato. Perché un significato ce l’ha ed è profondo, e non c’è un singolo elemento fisico che possa far fare questa evoluzione, che dura mesi e anni dopo l’esperienza.
Lei è anche un profondo conoscitore delle filosofie orientali, del Buddismo e del Taoismo. Qual è la differenza, rispetto all’approccio alla morte, di queste filosofie con il Cristianesimo?
La morte è la più grande fonte di paura e di terrore, da sempre. Diceva giustamente Epicuro che la morte non è nulla e che l’uomo è stolto perché prima la teme come il peggiore dei mali, poi la invoca come suprema liberazione dalle sofferenze.
Nella visione orientale – peraltro, ci sono molte filosofie orientali – un elemento che potrebbe essere abbastanza comune è quello dell’essere in una situazione non dualista, in cui sei parte del mondo, in cui tutto ciò che è materia e tutto ciò che è psiche sono componenti coesistenti, parti di un’unica realtà. In qualche modo, questa visione è comune anche con il filosofo greco Parmenide, che parla dell’essere che è, e che non può non essere, e tutto ciò che non è non può essere. Da qui nasce l’eternalismo, di cui il più grande esponente in assoluto è Emanuele Severino, il quale arriva a dire – e sono abbastanza d’accordo con lui – che non siamo immortali ma siamo eterni, perché siamo parte di questo essere del mondo che non può non essere.
L’idea che l’essere diventi nulla nasce con il parricidio di Parmenide da parte di Platone e poi di Aristotele. Si comincia a pensare che l’essere è e che, quando non è più essere, diventi nulla. La minaccia della nichilazione. Questo aumenta il terrore non di poco, perchè si è scambiato il concetto di essere con quello di apparire fenomenico ai nostri sensi, che sono due cose connesse, ma diverse concettualmente. L’essere è e rimane sullo sfondo, l’apparire è quello che io vedo, è un’informazione da quello che appare, ma si tratta sempre di un’informazione parziale, mutevole e incompleta. Nella meditazione orientale, nella meditazione yogica, nella meditazione chan, il punto finale è raggiungimento di quella condizione in cui l’atman individuale, che possiamo tradurre più o meno con “anima individuale”, fluisce nell’atman universale. E non c’è più separazione.