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Lasciarsi alle spalle ciò che non c'è più

Pubblicato 4 anni fa

Leggi un estratto da "Le Tre Domande della Felicità" di Jorge Bucay per scoprire l'importanza del dolore nella ricerca della felicità

In alcuni momenti di questa ricerca di risposte dovrò confrontarmi con la scoperta di ciò a cui già accennavamo nel capitolo precedente: chi sono non si sovrappone necessariamente a chi ero e a volte il mio «io» di oggi è completamente diverso dal mio «io» di ieri nonostante sia eredità di quest'ultimo. Ciò significa che non sono colui che ero e anche che non ho al mio fianco né le stesse cose né le stesse persone di allora.

Il dolore è un evento imprescindibile e fa parte della nostra crescita.

Tutte le sensazioni associate alla tristezza sono normali, nessuna esperienza costituisce di per sé una malattia, nessuna è minaccia della nostra integrità.

Stai leggendo un estratto da...

Può darsi che in un determinato momento, di fronte a una specifica situazione, una persona reagisca attraversando un processo di grande sofferenza e angoscia. Ma è anche possibile che la stessa persona, o un'altra, in un momento diverso ma comunque simile, attraversi un altro tipo di dolore, molto più grande e intenso. 

È giusto così: il vissuto di ciascuno di fronte a un dolore è una questione unica e personale. Proprio perché è tale, è giusto sentirsi in diritto di contestare, di dire «non sono d'accordo» o «io credo esattamente il contrario», di arrabbiarsi per ciò che viene detto. Questo vale anche per quello che sto dicendo ora.

Non lasciarti tentare dal luogo comune di pensare che se lo dice il libro, allora questo è quello che si deve provare, perché il dolore è sempre stato qualcosa di personale e sempre lo sarà.

Prendiamo alcune migliaia di persone e tingiamo i loro pollici con della vernice nera. Chiediamo poi loro di lasciare le impronte sulla parete. Ciascuna sarà diversa, non ce ne saranno due uguali, perché non esistono due persone con le stesse impronte digitali. Tuttavia, hanno tutte caratteristiche simili che ci permettono di studiarle e sapere di più sul loro conto.


Ognuno dei nostri dolori è unico e ogni modo di affrontarlo è irripetibile.


Nonostante ciò, ogni dolore somiglia, in alcuni punti, a tutti gli altri dolori e questi tratti comuni ci consentono di capirli maggiormente. Di fatto aiutare qualcuno in un momento di dolore significa lasciar libero chi soffre di esprimere le proprie emozioni, qualunque esse siano, a suo modo e con i tempi di cui necessita.

Noi terapeuti di tutto il mondo (in disaccordo più o meno su tutto) concordiamo sul fatto che la possibilità di trovare una forma d'espressione del vissuto interiore aiuti ad alleviare il dolore di coloro che stanno attraversando questo cammino.

Qualcuno potrebbe mettere in discussione quello che abbiamo affermato prima dicendo che non c'è bisogno di essere drammatici: perché mai una persona dovrebbe pensare che si separerà dalle cose? Ci sono molte cose che una persona tiene con sé per tutta la vita. A quelle potremmo aggrapparci tranquillamente, sapendo che staranno al nostro fianco fino all'ultimo minuto. Sarebbe bello se non fosse per il fatto che è impossibile.

Questo è il primo insegnamento dell'essere adulti.


Che ci piaccia o no, verremo abbandonati da ogni persona, cosa, situazione, tappa, idea, presto o tardi, e inevitabilmente.


E se così non fosse o non volessimo accettare che, comunque, tutto continuerà anche senza di noi, dovremmo rassegnarci all'idea che potremmo essere i primi ad abbandonare e sarebbe ignobile non stare attenti a non stringere, a non conquistare, a non attaccarsi, a non fingere false eternità impossibili. Inoltre, quanto si può godere di qualcosa per la quale si ha estremo riguardo e cura che nessuno la porti via?

Poniamo il caso che questa statuetta sulla mia scrivania, quell'ornamento o quel posacenere siano fatti di un materiale caldo e splendido al tatto. Supponiamo che tenga uno di essi saldamente fra le mani perché credo che qualcuno me lo voglia rubare. Che succederebbe se il pericolo (anche se immaginario) continuasse a incombere e io seguitassi a tenere l'oggetto in mio potere?

Due cose:

  • In primo luogo potrei rendermi conto che non c'è più nessuna possibilità di godere al tatto di ciò che stringo (provaci adesso, metti qualcosa con forza tra le mani e stringi. Guarda se riesci a percepire com'è al tatto. Non puoi. L'unica cosa che puoi percepire è che lo stai afferrando, che stai cercando di evitare che si perda).
  • La seconda cosa che potrebbe accadere, tenendola tenacemente tra le mani, è sentire dolore (continua ad afferrare l'oggetto con forza in modo che nessuno possa rubartelo e osserva cosa succede). Il dolore della mano serrata, la sofferenza di una mano che, così stretta, trova un unico sollievo possibile, quello di non aver perso; l'unico piacere che può dare la vanità, quello di aver battuto chi me lo voleva rubare, la gioia di «vincere».

Ho ottenuto ciò che volevo però lungo la strada ho rinunciato a tutta la felicità che veniva dalla mia relazione con l'oggetto in sé.

Questo è quello che succede insistendo con la stupida necessità di possedere o mantenere alcuni beni materiali. Con qualunque idea ritenuta baluardo. E in qualsivoglia relazione, inclusi i legami più stretti, con i genitori, figli o anche con il partner.

Di fatto, ciò che fa sì che i miei vincoli transitino attraverso spazi godibili è, continuando con la metafora, potere aprire la mano. Imparare a non vincolarmi nell'odiosa maniera di conquistare, controllare o stringere ma piuttosto lasciarsi andare a una situazione di vero incontro con l'altro, che si può godere solo in libertà.

Molti credono che non aggrapparsi a qualcosa o qualcuno significhi non esporsi. Un concetto che non condivido, ma capisco. Questo fraintendimento credo derivi dall'idea che siccome ci si aggrappa solo a coloro che sono importanti, allora aggrapparsi è un simbolo d'interesse e, pertanto, il non aggrapparsi viene interpretato come un non volersi impegnare ad amare.

È come dedurre che, siccome i morti non bevono la Coca Cola, se smetti di berla diventerai immortale. Ha la stessa fondatezza del pensare che se la tua fidanzata non ti controlla vuol dire che non ti ama. È come credere che chi non si arrabbia non sia una persona attiva; che se non sei esigente con il tuo impiegato, lui non dà il meglio di sé; che se gli avvocati non avessero una scadenza per consegnare i loro scritti, non li consegnerebbero mai (...be' questo è certo!).

È un po' come giustificare l'assurda argomentazione secondo cui si fanno le guerre per garantire la pace. Come dedurre che siccome sono felice in questo momento che siamo insieme, non sarò mai più felice se tu te ne andrai.


Anche le perdite più piccole presuppongono un dolore che fa soffrire e un lavoro che devo fare e che non si svolgerà mai spontaneamente da solo.


Anche se, in genere, tutto passa senza bisogno di ricerche e sollecitazioni, l'elaborazione dell'accaduto implica come minimo una certa partecipazione attiva al processo che, sebbene necessario, non è neppure lontanamente piacevole. Soprattutto supponendo che esistano perdite tanto commoventi da generare dolori difficili, più lunghi, più intensi e più sconvolgenti.

È ovvio che non serve a nulla tentare di evitare la sofferenza non compromettendosi affettivamente con niente e con nessuno. Tuttavia, quest'idea è diventata un modo di vivere nel mondo conflittuale ed edonista in cui viviamo; una norma culturale appresa e sperimentata molte volte, anche se io e molti prima di me la denunciamo come inutile e inaccettabile.

E anche se fossimo certi che questo espediente garantisca una sofferenza minore, avrebbe senso comprare una polizza di assicurazione contro il dolore di una futura perdita pagando come premio il non aprire il cuore a niente e a nessuno? Sicuramente no.

Fra le clausole di questo macabro contratto è scritto a caratteri minuscoli che, sebbene non si garantisca la totale assenza di sofferenza, si preannuncia la scomparsa definitiva di tutte le possibilità di godere di un incontro sincero con gli altri.

Non è che non sia possibile gioire di qualcosa senza poi star male, ma il godimento è impossibile mentre si sta scappando ossessivamente dal dolore.

Il modo per non soffrire «di più» non è amare «di meno» ma imparare a non rimanere legati a ciò che non c'è più quando giunge il momento della separazione o della perdita.

Impegnarsi a godere di quel che si ha in ogni momento e fare il possibile perché sia meraviglioso finché dura. Non vivere oggi pensando a quant'è stato bello ieri, ma sforzarsi di rendere entusiasmante quello che avviene ora. Restare ancorati a ciò che accade in ogni momento presente, non a ciò che è stato. Restare legati a ieri significa vivere schiavo del passato, coltivando ciò che non è più.

Che succede se una persona trae vigore dal riscoprire ogni giorno la sua relazione con l'altro? Che succede se ci obblighiamo a rinnovare l'impegno con l'altro quotidianamente piuttosto che una volta per sempre?

Per molti, timorosi, insicuri e intransigenti, la relazione diventerà un vincolo poco impegnato, ma io affermo esattamente il contrario: non bisogna attaccarsi a una persona, situazione o relazione, e se domani ciò che dà tanto piacere finisce, essere in grado di prendere la decisione di lasciarlo andare, ma finché non arriva quel momento cercare di impegnarsi completamente.

Il mio è l'impegno di coloro che asseriscono di impegnarsi per amore e non di quelli che amano per compromesso.

La decisione di non impegnarsi né qui né ora, lasciando l'apertura e il rischio per un altro momento, per un altro luogo, per un'altra realtà, non credo rappresenti alcuna soluzione.

Essere chi sono è, come dico spesso, correre il rischio di percorrere con dolore ma senza paura questo cammino bagnato di lacrime perché oltre alle persone che uno perde ci sono situazioni che si trasformano, legami che cambiano, tappe della propria vita che si superano, momenti che finiscono e ognuno di essi rappresenta una perdita da elaborare.

Se sono in grado di accettare queste cose come parte della vita finirò per ammettere che la mia principale responsabilità è imparare ad arricchirmi negli addii.

Immagina se mi aggrappassi a quegli splendidi momenti dell'infanzia che mi fanno pensare a come era bello essere bambini o vivessi con la nostalgia di quell'istante in cui, quando ero neonato, la mamma mi porgeva la mammella e si prendeva cura di me, e non avessi voglia di fare nient'altro. O ancora, se mi sentissi confortato al ricordo dell'immaginaria sicurezza dell'utero della mia mamma, pensando che quello sia lo stato ideale.

Pensa se restassi fermo a una qualche tappa precedente della mia vita e decidessi di non proseguire.

Immagina se stabilissi che alcuni momenti del passato sono stati talmente belli, certi legami così gratificanti, alcune persone tanto importanti che non voglio perderli, e mi aggrappassi a loro come a una corda salvatrice, a ciò che non sono più. Immagina se lo facessi anche tu... Non esisterebbe questo libro né il tuo interesse a leggerlo né il desiderio di andare avanti nella vita. Moriremmo entrambi lì, congelati nel passato e non sarebbe un bene né per me né per nessuno.

Nonostante ciò, è stato doloroso abbandonare ognuno di questi luoghi, lasciare la mia infanzia, smettere di essere un bebé, abbandonare l'utero, lasciarsi alle spalle l'adolescenza. Ciascuna di queste azioni ha implicato delle perdite da un lato, e profitti dall'altra ma è grazie a ciò che si diventa ciò che si è.

Pongo l'accento sul fatto che non esista profitto importante che non implichi, in qualche modo, una rinuncia, un costo emotivo, una perdita, perché questa è la verità che si scopre alla fine: che il dolore è imprescindibile dal nostro processo di sviluppo personale, che le perdite sono necessarie per la nostra maturazione e che quest'ultima, a sua volta, ci aiuta a percorrere il nostro cammino.

Quanto più ci si sgancia, tanto maggiore sarà la crescita. Più si è maturi, minore sarà la disperazione di fronte a ciò che ho perso; meno ci si tormenta per ciò che è stato, meglio si potrà continuare a percorrere il cammino.

Se sai chi sei, sarai anche in grado di abbandonare volontariamente e dolorosamente qualcosa per far posto ai miei nuovi desideri.

Bisogna svuotarsi per potersi riempire, dice Krishnamurti. Una tazza serve solo quando è vuota. Una tazza piena non ha senso perché non la si può riempire con niente. Non può dare nulla, perché prima dovrà imparare a svuotarsi.


Non si è solo ciò che si possiede ma anche e soprattutto ciò che si è in grado di dare.


E per questo è necessario sperimentare la perdita, il distacco e una certa dose di dolore perché, seppur sublime, si perde qualcosa anche quando si decide di propria iniziativa di dare ciò che è nostro.

Per poter rispondere alla prima domanda, quindi, bisogna accettare il vuoto, lo spazio dove, per decisione, per caso o per natura, non c'è più quello che c'era prima.

Questa è la nostra vita: disfarsi del contenuto della tazza per poterla riempire di nuovo. La nostra vita si arricchisce ogni volta che la riempiamo, ma anche ogni volta che la svuotiamo perché, quando lo facciamo, ci stiamo aprendo alla possibilità di riempirla di nuovo.

Personalmente la storia del mio rapporto con la mia crescita e con il mio mondo è la storia di questo ciclo dell'esperienza: entrare e uscire; riempirsi e svuotarsi; prendere e lasciare. Anche se non sempre è un processo facile. Anche se non sempre è privo di danni.

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