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La storia dei vaccini. Il Vaiolo

Pubblicato 4 anni fa

Leggi un estratto da "Vaccini e Mascherine SI o No?" di Stefano Montanari e Antonietta M. Gatti

Che sopravvivere a un’infezione porti l’individuo a essere protetto contro quella malattia è un’osservazione antica. Chi ha letto I promessi sposi ne troverà ampia traccia per quanto riguarda l’epidemia di peste del 1630, ma molto prima, ai tempi della guerra del Peloponneso - e siamo nel V secolo avanti Cristo - ci se ne era abbondantemente avveduti.

Forme artificiali d’immunizzazione potrebbero essere state praticate in India e in Egitto già un migliaio di anni prima di Cristo, ma di questo fatto non esistono testimonianze scritte certe. È certo, invece, quanto riportato dall’autore cinese Wan Quan nel suo Xinfa Douzhen pubblicato nel 1549: si prelevavano dalie mammelle di vacche malate di vaiolo le croste che si formavano e si polverizzavano. Poi quella polvere veniva soffiata tramite una cannuccia nelle narici del soggetto e il risultato era, se non un’immunizzazione immediata, il contrarre il vaiolo in forma attenuata diventandone poi, così, immuni o, quanto meno, più resistenti. La pratica non era del tutto priva di rischi, comportando una certa mortalità, ma i risultati erano senz’altro confortanti, visto che di vaiolo si moriva con una frequenza superiore rispetto a quella dei vaccinati.

Stai leggendo un estratto di questo libro:

Dal XVII secolo la metodica chiamata variolazione, cioè la vera e propria inoculazione delle croste o del pus di persone ammalate in via di guarigione, trovò impiego un po’ dovunque, specie in Africa, in Turchia, in Persia e in Inghilterra, tanto da essere descritta da due medici italiani (Jacopo Pilarino ed Emanuele Timoni) per la Royal Society inglese. La tecnica consisteva nello scarificare, cioè graffiare, la cute dei polsi e della fronte inserendo poi in ogni graffio il pus di una pustola infetta per lasciarla otto o dieci giorni. Il risultato era quella forma lieve di vaiolo di cui si è detto dalla quale, se l’operazione aveva successo, conseguiva l’immunità o la resistenza. Nel 1721, impaurita dagli effetti di un’epidemia di vaiolo, la famiglia reale britannica pensò di procedere all’inoculazione sui suoi stessi componenti. Ma, avvertiti del rischio insito nella metodica, si decise di sperimentarla preventivamente su prigionieri che avrebbero avuto in cambio la libertà nel caso in cui fossero sopravvissuti. Il risultato fu che i prigionieri si ammalarono tutti di una forma leggera di vaiolo e ne guarirono, ritrovando così la libertà, e i reali procedettero all’inoculazione. Da allora la pratica cominciò a trovare diffusione. Nelle colonie inglesi d’America, dopo una resistenza iniziale, la variolazione divenne una pratica abbastanza d’uso. Uno studio del tempo mostrò che su 244 individui su cui era stata praticata la variolazione 6 morirono, mentre su 5980 malati naturali i morti furono 844; 2,5% contro 14%.

A questo punto entra in scena Edward Jenner, un medico inglese vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento con una formazione che forse oggi farebbe storcere il naso a qualcuno. Per riassumere in poche parole una storia piuttosto lunga, nel corso di un’epidemia di vaiolo umano questi consigliò l’inoculazione ai contadini della zona della Scozia in cui esercitava la professione. Questi gli risposero che chi tra loro si era ammalato di vaiolo di varietà bovina restava immune anche da quello umano. Jenner, allora, a quanto egli stesso sostenne, avrebbe mandato un documento sul tema alla società medica locale, documento di cui, peraltro, non resta traccia, e la società medica reagì ignorandolo.

Qualche anno più tardi, nel maggio 1796, una lattaia, tale Sarah Nelmes, si ammalò di vaiolo bovino contratto per aver munto una vacca infetta con una mano ferita.

Jenner, con un’azione che oggi lo porterebbe dritto in galera, prese il pus da una mano della signora e con quello praticò una scarificazione, cioè un graffio superficiale, a James Phipps, il figlio del suo giardiniere. Due giorni di febbre e il piccolo, otto anni di età, recuperò la sua salute. Passarono due mesi e il dottor Jenner prelevò materiale infetto da un caso di vaiolo umano, inoculandolo all’ignaro ragazzino che non subì alcuna conseguenza negativa dall’esperimento. Insomma, l’inoculazione di materiale bovino infetto aveva immunizzato il soggetto anche nei confronti della varietà umana. Questa, almeno, era la conclusione di Jenner.

Nel suo entusiasmo il medico ritenne che quell’immunità durasse a vita, cosa che, purtroppo, si rivelò falsa, stante il fatto che, come accade per qualunque vaccino, l’immunità acquisita non va oltre qualche anno, nel caso del vaiolo, ad essere ottimisti, all’incirca cinque, e, se la si vuole conservare, non resta che ripetere la pratica con quelli che vengono detti richiami. Questa è una delle differenze sostanziali tra immunità da vaccino e immunità da malattia contratta naturalmente, un’immunità, questa, che resta per sempre. È opportuno sottolineare che quando un vaccino passa a una specie diversa perde gran parte del suo potere immunizzante. Per completezza storica, aggiungiamo che Jenner vaccinò pure suo figlio e praticò sia su di lui sia sul giovane Phipps numerosi richiami. Ambedue i ragazzi morirono all’incirca ventenni.

Occorre aggiungere che molto raramente la vaccinazione antivaiolosa praticata nei bambini attraverso la scarificazione della cute comporta effetti collaterali. Meno rara come conseguenza è, invece, negli adulti la cosiddetta encefalite vaccinica, cioè l’infiammazione di cervello, bulbo encefalico e cervelletto, una patologia che comporta una mortalità molto alta, tanto da raggiungere anche il 40% dei casi.

Pochissimo dopo l’episodio di Jenner, un certo dottor William Woodville cominciò a vaccinare a tappeto contro il vaiolo nell’ospedale londinese creato proprio per quella malattia. Questo con effetti vicini alla catastrofe. Il motivo era la sua ignoranza, di fatto condivisa da tutti i medici dell’epoca, relativa all’asetticità. Insomma, Woodville infettava i suoi pazienti con strumenti sporchi inducendo in loro violente infezioni a quel tempo incurabili. Come spessissimo accade in questi casi, al medico non passò nemmeno per la mente di rivedere le sue metodiche non proprio modello di igiene, universalmente accettate allora come buona pratica medica, e accusò Jenner di aver escogitato un metodo pericoloso e inefficace. Vale la pena accennare qui, giusto per inciso in tema d’igiene, alla sorte capitata decenni più tardi ad Ignàc Fiilòp Semmelweis, giovane medico ungherese operante a Vienna che nel 1847 scoprì come l’incidenza della febbre che allora colpiva spesso le partorienti poteva essere ridotta drasticamente con il semplice lavaggio delle mani del l’ostetrico. Curiosamente ma forse non troppo, a dispetto dei risultati eccellenti conseguiti, la classe medica gli si scagliò contro screditandolo, e dall’ospedale in cui lavorava arrivò il licenziamento. Tornato in Ungheria, caduto in depressione, nel 1865 Semmelweis morì di setticemia in manicomio dopo aver subito un intervento chirurgico. Ironicamente, una fine causata da quella sporcizia che aveva combattuto fino a morirne due volte.

Tornando a Jenner, ad onor del vero e senza voler intaccare la gloria di cui il medico inglese gode ancora oggi, occorre sottolineare come ciò che fece non fu particolarmente originale, visto che le stesse metodiche erano state utilizzate da parecchi altri medici molto prima di lui. Basterebbe scorrere la relazione di John Fewster, della London Medicai Society, risalente al 1765 per trovare più o meno le stesse cose, ma a Jenner va dato l’indubbio merito di aver pubblicato in modo credibile i risultati e, soprattutto, di aver dato loro pubblicità e diffusione. Insomma, un po’ come accadde per Cristoforo Colombo che, pur essendo arrivato in America secoli dopo chissà quant’altra gente, aprì di fatto la rotta verso il Nuovo Continente.

Nel 1805 Napoleone rese obbligatoria la vaccinazione antivaiolosa per i soldati che non avevano contratto la malattia, cosa ripresa qualche decennio più tardi dai prussiani e dai piemontesi, obbligo poi esteso anche alla popolazione civile. Forse è degno di considerazione il fatto che a quel tempo la vaccinazione fosse effettuata solo su soggetti non immunizzati naturalmente per essersi ammalati di vaiolo, un’attenzione più che mai fondata che non viene più riservata a nessuno al giorno d’oggi quando le vaccinazioni si praticano indiscriminatamente a chiunque senza curarsi del fatto di avere o di non avere contratto e superato la malattia.

Il vaccino antivaiolo che altro conteneva?

Da Jenner in poi la tecnica farmaceutica di produzione del vaccino si raffinò costantemente, rendendo il preparato antivaioloso più stabile e più efficace, e quel vaccino deve essere considerato il capostipite di tutti gli altri. Louis Pasteur, non dottore in medicina ma in chimica e per questo non proprio benaccetto dalla classe medica del tempo, contribuì alla causa sviluppando un vaccino antirabbico e, marginalmente, riferendosi alla storia di Jenner, prendendo l’aggettivo vaccino, cioè di vacca, e trasformandolo nel sostantivo che usiamo ancora oggi.

Il vaccino antirabbico fu approntato nel 1885 da un animale malato e passato varie volte nell’encefalo di un coniglio. Successivamente l’igienista piacentino Claudio Fermi attenuò con il fenolo il virus ottenuto con la modalità di Pasteur. Naturalmente, nessuno analizzò quei primi vaccini secondo i criteri dei controlli di qualità correnti o, meglio, che dovrebbero esse correnti oggi e, dunque, non è dato conoscere in dettaglio che cosa effettivamente contenessero, inquinanti probabili o, quanto meno, possibili compresi.

Ora, a XXI secolo ormai abbondantemente avanzato, di vaccini ne esiste una grande varietà. Di malattie da virus e da batteri, però, ne esiste una varietà immensamente più grande. Sarà sufficiente dare un’occhiata a quanti ceppi diversi esistono spesso dello stesso patogeno e, nel caso di tanti virus, quanto velocemente questi mutino per rendersi conto che, comunque, non sarà mai possibile vaccinarsi per ogni malattia e, dunque, le campagne indette dalle autorità sanitarie per controbattere una determinata malattia o anche più malattie insieme sono una guerra dichiarata e combattuta verso appena qualche drappello del nemico. Questo senza tener conto della reale efficacia dell’esercito che combatte, un’efficacia mai dimostrata con i fatti.


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