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Il sigillo dell'Orso

Pubblicato 4 anni fa

Leggi un estratto da "Lo Sciamano e il Cristo" di Daniel Meurois e scopri l'iniziazione del protagonista, Endehwan

Una mattina, mentre il nostro villaggio si stava appena svegliando, la terra si mise a rumoreggiare.

Fu così brutale che qualche vasellame e un tamburo si staccarono dalle strutture di legno che costituivano i ripiani a giorno su cui dormivamo per famiglie, al riparo delle nostre case lunghe. I bambini si misero improvvisamente a gridare e tutti si alzarono, scendendo più o meno facilmente lungo i tronchi d'albero intagliati che qui e là servivano da scale...

Il segno era incontestabile! La Grande Tartaruga aveva appena scosso il suo carapace; era arrabbiata. La Grande Tartaruga... era lei che, sorgendo dall'Oceano Primordiale, aveva saputo raccogliere sul suo dorso un po' di fango fertile dalle profondità marine affinché una terra, simile a un'immensa isola verde, potesse nascere su di lei e portare finalmente la vita...

Quell'isola era la nostra, ecco perché dovevamo ascoltare tutto ciò che lei ci diceva e perché era stata scelta dai Grandi Uccelli bianchi che percorrevano i cieli affinché i Wendat nascessero e vivessero...

Siccome non ci si vedeva per niente, la gente si precipitò fuori da un capo all'altro del villaggio, tremando nell'aria umida. Allora scambiammo poche parole che traducevano un pensiero unanime: stava sicuramente per succedere qualcosa... Che cosa e quando? Quella era l'unica vera domanda. La Grande Tartaruga non si muoveva mai senza una ragione.

Nella penombra, dopo aver stretto contro di me mia madre e le mie giovani sorelle, riuscii finalmente a distinguere da qualche parte la sagoma leggermente curva di Tséhawéh.

L'anziano uomo-medicina non aveva nulla da annunciare; nei giorni precedenti non aveva fatto sogni né incontrato Antenati protettori nella foresta. Con mia grande sorpresa fu lui stesso a chiedermi se fossi stato visitato dallo «spirito di un sogno»...

Ricordo che la cosa mi impressionò. Per me era un indizio: Tséhawéh stava iniziando ad avere fiducia nel modo in cui la «mia seconda anima» stava crescendo.

Non mi sentii rispondere, ancora intorpidito dal freddo del mattino di una primavera che tardava a insediarsi. «No... non ho ricevuto visite... ma sei stato tu a insegnarmi che Quelli che ci proteggono dall'altra parte del cielo spesso si divertono con il tempo che passa nelle nostre teste e nei nostri corpi, e che la Tartaruga nostra madre è loro complice con tutte le sue scaglie. Allora dico... aspettiamo e rimaniamo vigili...».

E in effetti non dovemmo attendere a lungo. Durante la stagione successiva, le notizie di una grande malattia che si portava via centinaia di uomini, donne e i loro figli, irruppero su di noi serpeggiando attraverso la moltitudine di sentieri che conducevano al nostro villaggio... finché una decina di Francesi ne varcarono la palizzata, sfiniti e senza fiato. Volevano una cosa sola, che li conducessimo immediatamente da Echon.

Quest'ultimo viveva ancora fra di noi approfittando delle regole di base del nostro dovere di ospitalità. Un dovere che, a dire la verità, non era affatto pesante, perché Echon aveva completamente adottato il nostro modo di parlare e di mangiare. In questo ci onorava, e noi lo rispettavamo.

Da quello che potevamo dedurre dai loro indumenti che si assomigliavano più o meno tutti, quei Francesi dovevano essere dei guerrieri. Dicevano di essere venuti da parte di un'altra Veste Nera che si chiamava Paul e che questo Paul reclamava la presenza di Echon al suo fianco. Aveva bisogno di aiuto perché là dove viveva, un po' più a nord, vicino al grande lago, la terribile malattia di cui si parlava stava imperversando...

In molti villaggi i corpi si coprivano di orribili pustole, poi la morte sopraggiungeva rapidamente senza che si fosse potuto fare qualcosa se non bruciare indumenti e case.

Per tutti noi fu uno shock. Non erano solo più notizie. Secondo i Francesi, il male era persino più subdolo e distruttivo degli attacchi degli Irochesi.

L'indomani Echon se ne andò con i guerrieri che erano venuti a prenderlo. Per sua stessa ammissione, aveva ben poche conoscenze di medicina, ma era evidente che aveva in testa l'idea di «salvare il maggior numero possibile di anime». D'altronde era l'espressione che gli avevamo sempre sentito ripetere come un'ossessione su cui era basata tutta la sua vita. Quindi il suo obiettivo dichiarato non era tanto quello di aiutare a guarire i Wendat malati, quanto di versare un po' d'acqua sulla loro testa recitando una sorta di formula magica in una lingua che non era nemmeno la sua.

Un simile atteggiamento era come un enigma per me e per molti altri. Bisognava a tutti costi che il suo dio-Cristo avesse l'esclusiva di tutto... e soprattutto di un'esistenza piena di felicità sull'altro versante della vita!

Allora dissi a me stesso: «Dopotutto, se il fatto di credere che in questo modo ci possa «salvare» può tranquillizzarlo...».

Ma in realtà, salvarci da che cosa? Non ero certamente il solo a chiedermi perché nel nostro popolo ci sarebbe stato «qualche cosa» di più oscuro che nel suo popolo non c'era. Sapevamo cantare, danzare, amare. Quanto poi all'abito scuro, non erano forse loro a indossarlo, mentre i nostri indumenti dalle molteplici sfumature, le nostre piume colorate, i nostri braccialetti e i nostri wampum bianchi e porpora dichiaravano in ogni istante il nostro senso della vita? Quale ragione avremmo avuto di temere il minimo castigo venuto dalle terre celesti? 

Fatto sta che Echon e la sua vecchia veste nera si addentrò con i suoi nella foresta, con l'espressione solenne e preoccupata, promettendoci con un ultimo segno che un giorno sarebbe tornato... 

Devo dire che in fondo a me stesso non mi auguravo che tornasse. Nonostante la sua bella barba grigia che riusciva a conferirgli una sorta di singolare dignità, avevo promesso a me stesso che Echon non sarebbe mai riuscito ad ammansirmi. Il suo dio poteva anche essere buono e magnificamente grande, ma malgrado tutto c'era qualcosa di importante che lui e tutte le altre Vesti Nere non avevano compreso. 

Questa «cosa» era che il Grande Spirito che si libra al di sopra dei mondi non aveva per forza lo stesso linguaggio di tutti gli uomini, perché la Vita che Lui aveva generato era fatta di troppi colori diversi perché fosse altrimenti. Per tutti quelli di noi che non si lasciavano influenzare, o più o meno comprare, era una questione di buon senso...

Pochi giorni dopo la partenza di Echon, come se ci fosse urgenza, Tséhawéh invitò mia madre e suo fratello nella casa che condivideva con la sua famiglia. Quando arrivarono, mi aveva già fatto sedere a torso nudo su una grossa pietra vicino al fuoco centrale che crepitava, e il cui fumo spesso faticava a uscire dal tradizionale foro praticato nel tetto della costruzione.

Ricordo che dopo aver condiviso un po' di tabacco mentre altri uomini e donne del villaggio ci raggiungevano progressivamente, annunciò con la sua voce più solenne che era venuto il momento che diventassi finalmente un vero uomo. Voleva dire un vero guerriero e poi un uomo-medicina che sapesse parlare agli Spiriti.

Secondo lui, il mio odore era cambiato e questo era il segno decisivo, la prova che il mio colore d'anima non era assolutamente più lo stesso... E poi, concluse, aveva contato più di ogni altro gli anni che erano passati da quando avevo cambiato nome.

Non ci furono grandi discussioni. Tutti approvarono con una sorta di smorfia eloquente accompagnata da un cenno del capo e poi le donne, a partire da mia madre, iniziarono a coprirmi il petto con tutte le ceneri che riuscirono a trovare per terra intorno al fuoco. Allora, per concludere quella piccola cerimonia, facemmo di nuovo circolare la pipa e con il pollice Tséhawéh tracciò un segno sul mio busto. Più tardi mi confessò di non sapere che cosa significasse, ma che la sua immagine si era improvvisamente presentata agli occhi del suo cuore come necessaria e giusta.

Come voleva la nostra Tradizione, per entrare nell'età adulta dovevo andarmene subito nella foresta da solo, e non sarei potuto tornare finché non avessi avuto la visione che avrebbe potuto fare di me un uomo. Una vera visione! Non un sogno qualunque e nemmeno un sogno portatore di messaggi... Per noi, una visione era una vera e propria espansione di coscienza in stato di veglia...

Per me voleva dire «l'apertura di un varco di luce» che mi avrebbe parlato della mia verità profonda, e forse anche della direzione della mia vita... o magari qualcosa che non avrei compreso ma che avrebbe saputo agire fin nelle mie viscere.

Esaltato anche se muto di fronte ai miei, l'indomani lasciai il villaggio. La foresta era sempre stata la mia dimora e di conseguenza isolarmi nelle sue profondità non era per nulla straordinario, ma ora... mi era stata promessa come un santuario!

Quindi presi il mio coltello di pietra scolpita, i due pezzi di legno che mi sarebbero serviti a chiamare il fuoco, qualche pezzo di corda, due o tre pelli di castoro per stare al caldo, una manciata di bacche secche, un po' di linfa d'acero indurita e poi mi addentrai nel profondo dei boschi attraverso il primo sentiero che mi si era mostrato, con la ferma volontà di confondermi tra i cespugli spinosi fin nelle vicinanze di un fiume che sapevo esistere verso est.

Vi arrivai quando il sole si era timidamente mostrato allo zenit attraverso uno squarcio nelle nuvole. Allora, senza riprendere fiato, come mi avevano insegnato mi affrettai a trovare alcuni alberelli vicini l'uno all'altro. La mia intenzione era di costringerli a curvarsi fino al punto in cui avrei potuto riunirne le sommità formando così la struttura di una sorta di capanna. I miei pezzi di corda mi aiutarono a farlo... Una volta finito, avrei soltanto dovuto trovare dei rami da intrecciare per rifinire quello che sarebbe diventato il mio riparo.

Quando infine si annunciò il crepuscolo ero contento e fiero della mia piccola costruzione, certamente irregolare ma che si sposava perfettamente con la densità della foresta. Ne rivedo ancora l'apertura che avevo fatto intenzionalmente molto stretta e che quindi si poteva chiudere facilmente. Tutto ciò non era chissà che, ma era l'ideale per farmi dimenticare il mondo degli uomini e per chiamare in piena libertà l'universo inscritto nel mio cuore.

Prima di iniziare il digiuno a cui dovevo sottomettermi, alla fine mangiai le poche bacche secche che erano avanzate e poi mi coricai, avvolto nelle mie pelli, rannicchiato su me stesso come un animale. Ero sfinito...

Eppure nel bel mezzo della notte mi svegliai anchilosato e certo di dover uscire, di dovermi sedere davanti alla capanna per fare un po' di posto nella mia testa riempiendomi i polmoni. Da noi Wendat si era sempre detto che l'aria che respiravamo sapendo consapevolmente di respirarla faceva fuggire i pensieri inutili. Questo faceva parte dei principi della nostra saggezza.

Come mi aspettavo, questa respirazione ebbe anche l'effetto di fare rapidamente emergere una dolce luminosità dietro le mie palpebre chiuse, e poi di aprirmi le orecchie all'infinità di rumori della notte. Oh, era tutto così vivo, di notte! C'erano tante forze che si risvegliavano, osavano uscire, si sarebbe detto, da una sorta di riservatezza che il giorno imponeva loro...

Quante volte avevo sentito delle presenze animali fiutare il mio odore? Qui e là c'erano rami che si spezzavano. Tuttavia quando decisi di aprire gli occhi per frugare l'oscurità, nella speranza di familiarizzare con qualche creatura che, forse, avrebbe potuto svelarmi un segreto che avrei fatto mio, non vidi nemmeno il lampo di uno sguardo che la penetrasse. 

No... nulla che mi insegnasse qualcosa... Nulla che mi dicesse qualcosa che non sapessi già. Ne rimasi deluso? Certamente sì, ma ricordo di aver cercato a lungo di consolarmi lasciando che i sentori delle erbe e delle piante salissero dalla terra in tutta la loro potenza. Una vecchia pratica a cui ero abituato...

Nel cuore di questo abbandono non mi accorsi di prendere sonno, così che ci volle l'umidità dell'alba per tirarmene fuori, con la testa tutta popolata da sensazioni indefinibili. Allora, quasi terrorizzato dallo stato della mia coscienza intorpidita, mi infilai nella capanna.

Durante una notte come quella non era dunque successo nulla che fosse davvero nuovo per me. Tuttavia, a dire la verità, con l'improvviso annuncio e le aspettative che Tséhawéh aveva formulato, nel mio essere stava cominciando a insediarsi una terribile pressione. Bisognava assolutamente che fossi degno di tutto ciò!

Perso nel turbamento dei miei pensieri, fui ben presto inghiottito un'altra volta da un «buco di sonno», uno di quegli abissi senza fondo da cui soltanto il calore del giorno riuscì finalmente a tirarmi fuori. Il sole era già alto nel cielo, avevo banalmente fame e non era successo niente che potesse farmi supporre che, con il pretesto che me ne era stato annunciato il momento, nella mia coscienza si sarebbe aperta una nuova porta.

Da molto tempo sapevo come le visioni arrivavano da me; avevo sempre sentito che stavano per invadermi attraverso una diversa percezione dei rumori e dei silenzi della foresta. Non avevo mai avuto bisogno di reclamarle... Mai! Ogni volta si erano avvicinate dolcemente e mi avevano portato via per farmi penetrare nella terra, nell'acqua o nei cieli con uno sguardo più vasto... e talmente più amorevole del mio!

Quel giorno, il secondo del mio isolamento, per essere fedele a me stesso e alla mia prova non cedetti alla fame andando in riva al fiume per catturare un pesce.

Preferii cantare finché potevo per fare fuggire anche il più piccolo pensiero e attirare le Presenze dell'Invisibile, le mie alleate di sempre. Questo durò, durò... Ahimè, niente e nessuno rispose alle melopee volatili che erano uscite dal mio petto. Il vuoto...

E la notte avvolse nuovamente tutto, invitandomi a rifugiarmi sotto i miei rami. Non mi era venuto incontro nemmeno un capriolo... Era inconcepibile! C'era solo più il soffio del vento tra i pini e, dentro di me, esattamente al centro del mio cranio, una sorta di silenzio assordante. Tséhawéh mi aveva parlato della sua esistenza, credevo di averlo già visitato ma evidentemente mi ero sbagliato.

Di colpo, seduto nel mio riparo, pensai a Echon e alla sua povera veste nera... Mi dissi che se mi avesse visto lì non mi avrebbe dato tregua finché io non avessi pregato il suo dio-Cristo chiamandolo con l'altro suo nome. Gesù. Quando le cose non andavano bene aveva l'abitudine di dichiararlo a tutti.

Allora aveva ragione? Io non avevo mai visto che questo fosse servito a qualcuno. Come potevo crederci? Da noi non esisteva altra preghiera se non quella del canto del tamburo... oppure ognuno inventava la sua sapendo che sarebbe stata sicuramente udita da qualche spirito, forse colpito dalla profondità della sua sincerità.

Forse... a meno che... A meno che una simile preghiera avesse abbastanza forza da andare dall'altro lato della volta celeste intrufolandosi tra le sue stelle. Lì, con un po' di fortuna, avrebbe potuto raggiungere il Grande Spirito, Yoskaha, o sua madre Aatentsic... Ma importava poco, perché tutto si toccava.

Non so per quanto tempo rimasi così, perso in una vera palude interiore in cui i pensieri più diversi si accavallavano gli uni sugli altri. Perché quella volta tutto sembrava più complicato? Perché mi ero inventato una sfida che non esisteva... Lo compresi molto tempo dopo, rivisitando nei ricordi quei momenti di turbamento e di grandi interrogativi.

Non dobbiamo cercare quello che in verità non è nascosto. Attendiamo semplicemente che sia «quello» a venirci a cercare nella nostra più giusta nudità.


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