Il popolo della notte e il legame tra vita e morte
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2 anni fa
Sono le cose che non sai sul buio, sulla morte e sulla fine che ti spaventano più di quanto dovrebbero: ecco perché scoprirle può permetterti di vivere in modo più intenso, sereno e meno impaurito
"Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita. Perché vita e morte sono una cosa sola, così come il fiume e il mare."
– Khalil Gibran –
I rapaci notturni sono chiamati "strigiformi", un nome assai significativo, traducibile letteralmente in "a forma di streghe", che lascia trapelare quanto l'uomo sia permeato, anche nella sistematica zoologica, dalla paura nei confronti del buio e della notte, che trova il suo apice nella paura della morte.
Gli strigiformi sono, semplicemente, uccelli adattati alla vita notturna; questo significa che hanno sviluppato in modo potente vista e udito, hanno trasformato molte delle penne in piume, così da essere più silenziosi nel volo, hanno modificato il proprio apparato scheletrico per ottenere un collo che può ruotare per quasi 360°.
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Il più grande rapace notturno
Il più grande rapace notturno italiano è il gufo reale, un campione di silenzio, che, nel silenzio stesso, ha imparato a percepire quanto avviene attorno a lui.
Si tratta di uno dei rapaci notturni più affascinanti e maestosi: ha occhi grandi e ipnotici, di colore arancione caldo, un'apertura alare imponente e avvolgente. Caccia di notte, sfruttando due delle sue peculiarità, appunto: il fine udito e il volo silenzioso. Nell'arco della sua vita, rimane un animale solitario, che si unisce a un suo simile solo durante il corteggiamento, per creare un nido sui tronchi o sulle scogliere, dove potrà depositare da due a sei uova.
I suoi occhi spalancati sul buio della notte sono testimoni di un mondo a noi invisibile.
Altri animali della notte
Anche le lucciole sono un simbolo che splende in una dimensione che ci è ignota: ci riportano al tempo dell'infanzia, in cui le scintille che illuminavano la notte erano sorprendenti stelle in terra, preziosi messaggeri dell'oscurità, che evocavano, con la loro luce, la magia di tutto ciò che non potevamo vedere.
Oggi sappiamo che le lucciole femmine accendono il loro lumicino solo quando avvertono la presenza del maschio sopra di loro: è il segnale che invita all'accoppiamento, che deve avvenire in tempi moto brevi perché la lucciola adulta, ovvero non allo stato larvale, non è in grado d'immettere alcun cibo. Sappiamo allora che le piccole luci che lampeggiano nel buio sono l'ultimo barlume della loro esistenza, un tempo reso visibile, perché estremo, che sembra celebrare gli ultimi istanti prima di scivolare nella morte e nel buio.
La femmina, infatti, lascia il suo piccolo corpo dopo aver deposto circa ottanta uova, mentre il maschio ha una durata di vita di un paio di settimane.
La ricchezza della morte
Nelle piante la ricerca della luce è il fine ultimo della vita. Lungo tutto il loro corpo esistono piccolissimi recettori simili a minuscoli occhi, sempre attivi, in eterna fuga dall'ombra, dall'oscurità, alla perenne ricerca del sole.
Non si sa perché un albero muoia. Negli alberi non esiste il fenomeno della senescenza, che è evidente negli uomini e negli animali. Forse, più che di morte, per gli alberi si può parlare di una sospensione del ciclo vitale.
Le capacità degli alberi di riproduzione delle cellule sfiora l'eternità: ci sono alberi che superano i 5000-6000 anni, che sembrano pronti a crescere e invecchiare in modo indefinito, ma è importante anche (forse soprattutto) come si invecchia.
Se non puoi spostarti, se ti trovi all'aperto, esposto ad accidenti casuali, l'influsso del destino è preponderante: in centinaia di inverni può capitare di tutto, può nevicare in abbondanza, o può scendere una galaverna molto spessa; agli attacchi atmosferici si affiancano gli attacchi fungini, parassitari, virali...
Una buona dose di fortuna è indispensabile. Gli alberi vetusti, i giganti verdi che, con i loro tronchi maestosi, riempiono di bellezza l'intero paesaggio vengono chiamati anche "Alberi Madre", a suggellare l'intima connessione tra loro e gli altri alberi, in un rapporto di aiuto.
Questi alberi hanno radici vigorose e vivono molto a lungo. Se l'uomo non interviene, sono destinati a una lenta vecchiaia, che si conclude lasciando a terra una grande materia inerte, su cui banchettano tutti gli abitanti della foresta.
La necromassa mantiene vivo l'intero ecosistema della foresta, generando, dalla morte dei giganti, nuovo spazio vitale e nuova vita per molti esseri. Nelle foreste vetuste, infatti, il legno, anziché essere asportato dall'uomo, subisce un graduale processo di decomposizione, che può durare per lungo tempo, generando nuova fertilità del suolo.
Vita e morte celebrano insieme il flusso dell'esistenza
È proprio la fine che si lega indissolubilmente a un nuovo inizio: così si genera linfa vitale che poi darà nuovi frutti.
Gli alberi vetusti sono i più ricchi di vita: secchi, anche quando restano in piedi, hanno i tronchi colonizzati da funghi a mensola, bucati dai picchi e coperti di licheni. Oltre duecento specie di insetti saproxilici (ovvero che si nutrono di legno morto: dal greco sapros, «marcio», e xylon, «legno») allo stadio di larva, vivono esclusivamente di legno morto, e rappresentano una porzione importante della vitalità della foresta, ovvero ben il 20% degli invertebrati che la popolano. A questo proposito, il generale Franco Mason, già coordinatore e responsabile della Riserva Naturale Bosco Fontana di Marmirolo (Mn), commenta: «Le faune saproxiliche più specializzate e maggiormente a rischio di estinzione vivono solo nei tronchi di grandi dimensioni. Oggi è dunque necessaria una seria discussione scientifica sul tema della conservazione del legno morto. La posta in gioco è rilevante: per i gestori forestali il mantenimento di una selvicoltura sostenibile, per chi si occupa di conservazione il mantenimento di una biodiversità.»
La fase di permanenza dell'essere vegetale privo di vita in foresta può essere lunga: una pianta, una volta morta, volge completamente la sua esistenza ad aiuto delle altre piante, perfino dei suoi discendenti, e di creature animali.
Le spoglie degli alberi sul terreno arricchiscono il sistema: riescono a trasferire al terreno sostanze che solo esse possono donare. Si parla di necromassa, cioè di sostanza organica morta che viene decomposta nel tempo: le foglie si decompongono in pochi mesi, mentre tronchi e rami, essendo ricchi di lignina, hanno bisogno di tempi più lunghi, nei quali si rivelano essere dei dendrotelmi e microhabitat saproxilici.
Si compie, in questo modo, un passaggio di energia dalla parte vitale a quella terrena, che poi altre vite potranno sfruttare.
Le piante morte, così facendo, in qualche modo proseguono la propria vita, che è una vita ecologica, a favore del resto del sistema.
Il tempo giusto per morire... E rinascere
Tutto ciò, questo complesso e armonioso ciclo vitale ha, però, bisogno di un fattore fondamentale, un fattore essenziale e originario, semplice, che oggi tuttavia abbiamo smesso di considerare: il tempo.
Nella sua «seconda fase», quella che segue la vita, ovvero la fase «ecologica», l'albero potrà restituire tantissimo di ciò che ha preso, grazie ai funghi, agli animali.
Nel momento in cui l'uomo, lasciando il corpo vegetale dove si trova, esce di scena, i grandi alberi diventano protagonisti assoluti del bosco. Ma per compiere questo processo, l'albero deve avere il tempo di morire, cadere e decomporsi: decine di anni di tempo.
Solo grazie a questo tempo, i grandi giganti, proprio come fanno le lucciole, possono brillare di vita prima di, letteralmente, sparire.
Il tempo serve anche a noi per valutare questo processo nel modo giusto. Se camminiamo in un luogo in cui sono caduti alberi per morte naturale conserveremo, forse, un'impressione di foresta in difficoltà, di funesti presagi o di sgradevolezza. Ma in una fase successiva, donata dal tempo, quello spazio non ci darà più alcuna impressione negativa.
Dobbiamo aspettare, perché, fra trent'anni, di quel legno non rimarrà quasi nulla e, al posto degli alberi caduti, ci saranno giovani alberi poderosi, che cresceranno sul terreno che ha assorbito tutte le sostanze organiche dei vecchi tronchi.
In natura, la biodiversità non ha standard estetici, spesso ciò che non sembra «bello», a prima vista, è in realtà ricco di biodiversità.
L'albero abitato — il cosiddetto albero habitat — è, spesso, quello rotto, con buchi, con corteccia mancante, o rami spezzati, che si rende casa per le altre specie. Spesso, un albero oggettivamente bello non ha quella ricchezza e quella resilienza. Accade così non solo per gli «alberi madre», ma anche con le madri dell'uomo, che quando dedicano tanto tempo ai figli non hanno spesso la possibilità (o la voglia) di truccarsi e, magari, non riescono a dormire di notte molte ore di seguito. Così, per un certo tempo, almeno mentre i figli sono piccoli, hanno un aspetto stanco e stralunato, arruffato, ma in quella distrazione per la loro cura esteriore vive la totale accoglienza e apertura per i loro bambini.
In questo dimenticarsi di se stessi degli alberi vetusti e delle madri, in questo loro morire all'ego, può manifestarsi una delle più alte forme d'amore.