Il mondo sospeso
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4 anni fa
Leggi un estratto da "Governo Virale" di Pier Paolo Dal Monte e Stefano Mantegazza (Il Pedante)
È piuttosto inquietante osservare quanto sia stato facile e rapido instaurare lo stato di eccezione permanente al quale assistiamo ai nostri giorni.
L'avvento della iatrocrazia epidemica ha rimosso qualsiasi freno inibitore in coloro che confezionano la realtà fantasma dei nostri tempi: ciò che era impensabile è divenuto, non solo possibile ma, addirittura, ordinario. Non l'epidemia, ma la narrazione dell'epidemia ha determinato la scomparsa di qualsiasi katéchon che tratteneva dal procedere verso la dissoluzione di tutte le strutture (sociali, politiche, culturali) che consentivano ancora il vivere civile e che conservavano una parvenza di umanità nel consesso umano.
Il futuro è diventato qualcosa di caliginoso, incerto, vagamente minaccioso, ed è reso, di fatto, inconcepibile dalla parossistica cosmogonia iatrocratica nella quale un mondo fantasma dispiega la propria ombra sul mondo reale, cancellandone le sembianze.
La vita tutta si dipana in una sorta di carcere virtuale nel quale è consentito sopravvivere, ma non vivere: un Panopticon su scala globale nel quale, ormai, sono lecite solo le attività strettamente necessarie per la sopravvivenza. Tutto ciò che esula dalla mera funzionalità auto-conservativa è negato.
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Le strutture sociali sopravvivono per mera inerzia, per il semplice fatto che esistono e non possono essere smantellate dall'oggi al domani, ma sono svuotate di ogni contenuto, di ogni scopo, e di qualsiasi residuo di vitalità che ancora sopravviveva in esse. Ormai, appaiono come stanche reliquie di un mondo nel quale viene inscenata una rappresentazione della vita che esisteva fino a ieri, pur essendo, questa, estinta.
Assistiamo, dunque a null'altro che a una perenne replica di una commedia di spettri che vagano senza meta in un eterno presente.
La demolizione di una civiltà è un compito arduo, necessita di costanza, perizia e dedizione: le sue strutture immateriali, molto più che quelle materiali tendono a resistere ai colpi più impetuosi. Eppure, nonostante questa apparente solidità, una civiltà è un edificio delicato e complesso, fragile in virtù della propria complessità; necessita di cura continua, di costante manutenzione, di un legame emotivo con le strutture culturali che la informano, di una prospettiva di futuro, della presenza di una realtà reale che s'invera nella tangibilità delle relazioni umane che sono fatte di significanti condivisi.
Una civiltà non può sopravvivere se si regge soltanto sulla realtà fittizia confezionata da quelle fabbriche di spettri che danno forma al mondo fantasma. Ha bisogno di principi, visioni, costumi nei quali la natura si possa trasformare in cultura, come una selva ostile in un campo coltivato.
Quando tutto questo viene distrutto, il vento della devastazione "soffia dove vuole", e allora non vi è più spazio per una vita che sia altro che un insensato attendere lo scorrere di un tempo che si coagula in un distopico nunc stans, senza memoria e senza attese.
La comunità degli uomini si disperde in un coacervo di monadi autistiche, una sorta di gregge che non necessita nemmeno più di un pastore, di un qualsivoglia meccanismo disciplinare che lo indirizzi entro i confini di un recinto, perché i recinti sono stati introietttati, e impediscono di procedere verso qualsivoglia meta, verso qualsiasi avvenire.
Non è più possibile vivere in un mondo comune, fosse pure quel piccolo mondo che ci circonda nella vita quotidiana, quello degli affetti e delle amicizie, il proprio "villaggio funzionale", ma si è costretti a sopravvivere in un astratto mondo in comune, un mondo fatto solo di estensione, scandita da un "distanziamento sociale" da animali braccati che fiutano l'aria sentendosi costantemente preda di un predatore invisibile, di un'onnipresente minaccia.
Scriveva T.S.Eliot: È questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con uno schianto ma con un lamento.
Già prima dell'avvento della teologia pandemica, il nostro mondo si stava pian piano spegnendo, soffocato dalla propria insensatezza. Le strutture della civiltà e la vita comunitaria erano agonizzanti sotto i colpi di un totalitario meccanicismo sociale. La convivenza e il mondo comune avevano ormai cessato di essere retti dal costume e da tutto ciò che era stato tramandato dalle generazioni passate, nelle quali si condensavano, in una sintesi accorta, la natura e la cultura.
Ora, tutto questo è stato definitivamente cancellato in nome di una presunta tutela della sopravvivenza biologica e rimane solo l'arbitrio estremizzante di un totalitarismo zootecnico che ha lo scopo di gestire la popolazione di quella specie animale che prende il nome di Homo sapiens sapiens, la cui ragion d'essere è la preservazione dell'organismo sociale.
Questa governatività iatrocratica ha fatto strame di qualsiasi corpus normativo, di qualunque consuetudine, di qualsivoglia nomos creato per regolare il vivere in comune, sottoponendo tutto questo a una pianificazione arbitraria di ogni aspetto dell'esistenza.
Tuttavia, un'obbedienza cieca, da animali in gabbia, è impossibile, è impensabile che possa preservare quel minimo di vitalità, di scopi e di volontà che ancora mantenevano in piedi l'edificio e, dunque, «a furia di scavare, smotterà il terreno su cui è stata edificata Babele».
Naturalmente non rimpiangiamo quel mondo meccanico che, nato con la rivoluzione industriale, si è pian piano "evoluto" fino a diventare la distopia pianificata dei nostri tempi, fatta soltanto di ossessioni gestionali permeate da un tecnicismo anomico. Tuttavia, oggi stiamo assistendo a una sorta di distillato quintessenziale di quel totalitarismo tecnico che già aveva dispiegato la propria ombra sinistra sull'intero globo.
Se si riesce, almeno per qualche momento, ad astrarsi dal mondo fantasma del presente, si può osservare che questo perpetuo reiterarsi della saga pandemica ha la mera forma di un rito apotropaico permanente, un sacrificio continuo a una sorta di idolo insaziabile che non è mai pago di olocausti.
La maggior parte della popolazione, della più parte del pianeta, ha accettato, senza troppo recalcitrare, di sottoporsi a un regime iatrocratico che, di fatto, ha comportato la sospensione della vita, senza che siano mai stati chiariti, in maniera attendibile, i motivi, lo scopo e la ratio delle misure intraprese - della cui efficacia abbiamo avuto prova in questi mesi -, se non con vaghi appelli alla fantomatica opinione degli "esperti" o alla ineffabile valutazione di oscuri comitati.
Questa prassi biosecuritaria ha portato non solo alla cessazione di ogni attività politica che non fosse un mero rafforzamento della ratio gubernatoria, e alla cancellazione delle ultime vestigia della cosiddetta "democrazia rappresentativa", ma anche alla sospensione di qualsiasi manifestazione dell'essere sociale. Quello che è rimasto è un'esistenza da detenuti in un carcere virtuale, ai quali viene concessa, di tanto in tanto, qualche sparuta "ora d'aria", gentilmente offerta dal Sovrano e all'auctoritas scientifica dei suoi araldi di corte.
Tuttavia, anche in questi sparuti momenti di libertà vigilata, i sudditi-carcerati sono proni a una normazione cangiante che lascia spazio agli arbitri dei gendarmi che, come piccoli ras di bande di quartiere, spadroneggiano e terrorizzano la popolazione.
Questo rito ha preteso che venisse sacrificato tutto ciò che esula dalla mera sopravvivenza.
Si sono immolati gli affetti, le amicizie, i rapporti sociali; è stato abolito ogni culto religioso, la celebrazione delle festività; per la prima volta nella storia è stato impedito ogni tipo di omaggio ai defunti. È stata cancellata, con pochi tratti di penna, ogni possibilità di sviluppo per i giovini e gli infanti: non solo si è sostituita l'istruzione con un pallido simulacro virtuale (perché l'istruzione non può prescindere dall'interazione reale tra docenti e discenti), ma sono state soppresse anche quelle componenti fondamentali per la crescita dei fanciulli che sono il contatto, la relazione, il gioco coi propri coetanei, ovvero tutto ciò che è connaturato con l'essere sociale, l'essere parte di piccole comunità unite da un percorso comune: la classe, la scuola, l'università. Si vuole far crescere i fanciulli come piccoli atomi senza volto, sparuti e spauriti, senza alcun contatto tra loro, privi di tutto ciò che ricordiamo, con nostalgico affetto, della nostra infanzia.
Ci chiediamo quali saranno le memorie che conserveranno della loro fanciullezza questi poveri esseri trapiantati dalla vita in un universo astratto e solitario, privo di quei giochi e di quelle avventure che, solo in compagnia dei propri amichetti e compagni, sono possibili.
Qualsiasi prassi comunitaria è stata abolita per decreto, quelle ludiche come quelle funzionali, non solo i ristoranti, i bar e le balere, le proiezioni e le rappresentazioni; ma anche i convegni, le riunioni, le conferenze; si è estinto ogni attività conviviale, ogni contatto col prossimo, le strette di mano, gli abbracci. Le tristi riunioni virtuali o le meste lezioni davanti a un dispositivo elettronico, nella solitudine della propria stanza o del proprio studio, sono ciò che resta.
Scrive Gorgio Agamben: «Che cos'è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?», la cui salvaguardia (presunta), ha assunto la forma di un feticcio privo di contenuto reale, dato che, non solo il rischio è stato largamente magnificato dalle orchestre mediatiche che, ormai da un anno, reiterano ossessivamente quest'unico tema ma, cosa più rilevante, è stato affrontato con misure e restrizioni la cui efficacia era puramente ipotetica, dato che non erano dettate da alcuno dei canoni che informano il metodo scientifico e che, alla prova dei fatti, si sono rivelate inconcludenti.
Tuttavia, se il Sovrano, ovvero i poteri che dettano l'agenda politica globale, si è sentito costretto ad adottare questa strategia che, tra le altre cose, ha fortemente compromesso la credibilità della favola del progresso e della prosperità, come portato necessario del capitalismo liberale, evidentemente non vi erano alternative di efficacia paragonabile (se non eventualmente l'uso della forza) per gestire il caos sistemico verso il quale era condotto il mondo, nonché per provocare quella "Grande trasformazione" che, nelle intenzioni, dovrebbe condurre a una "nuova normalità", una nuova escatologica "fine della storia", l'ennesima tra quelle preconizzate in passato da altre marionette del pensiero.
Una Trasformazione che, secondo le intenzioni, dovrebbe traghettare il mondo verso la fine dei tempi: un eterno presente nel quale nulla deve poter cambiare affinché tutto possa essere previsto e controllabile. Perché l'eterno presente non può essere fatto altrimenti che da un fluire di giorni sempre uguali durante il quale si sopravvive fino alla morte.
Tuttavia - e questa è una certezza, non una speranza - la storia non finisce, e nulla può essere prevedibile nella mirabile complessità del mondo, fatta di molteplici volontà e intenzioni non riducibili agli algoritmi da accattoni coi quali si pretende di controllate il corso degli eventi. Qualsiasi tentativo di trasformare un mondo vivo in un morto universo meccanico non può avere altro effetto che aumentare l'insostenibile pressione alla quale l'umanità è già sottoposta, pressione che non è più compatibile con la vita della maggior parte degli esseri umani.
Vivremo tempi interessanti.