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Il gioco senza fine

Pubblicato 1 anno fa

Elisabetta Vagliani
Dottoressa in scienze dell’Educazione, esperta nei processi di apprendimento

Un ponte tra fantasia e realtà

Giocare: un infinito presente che fa subito pensare all’infanzia.
Giocare è apprendere.
Giocare è stare in relazione.
Giocare è fare esperienza.
Giocare è libertà.
Giocare è una cosa seria!

Si potrebbe certamente procedere ancora e ancora con un lunghissimo elenco di affermazioni riguardo il giocare, sintesi estreme di studi rinomati. Numerose infatti sono le teorie di pedagogisti, di storici, di filosofi, di antropologi e di psicologi, del passato e del presente, che hanno teorizzato, scritto e divulgato sul gioco come attività naturale, funzionale allo sviluppo e alla maturazione del bambino.

Autorevoli pensatori come Friedrich Fröbel, Karl Gross, Jean Piaget, Lev Vygotsij e Donald Winnicot (potrei, dovrei citarne molti altri!) hanno contribuito in modo considerevole ad ampliare la letteratura sull’argomento. Tutti, o la maggior parte di essi ha riflettuto e formulato ipotesi sull’aspetto cognitivo dell’atto del giocare, tralasciando però il suo valore emotivo, quello istintivo e primordiale. Si è molto insistito sulle connessioni tra il gioco e lo sviluppo cerebrale, sulla diversa funzione del gioco nelle fasi dello sviluppo, sulla relazione tra gioco e apprendimento.

Meno invece è stato detto sul suo valore simbolico e archetipico. Se solo provassimo ad allontanare lo sguardo, a distogliere l’attenzione dal particolare e tentassimo di abbracciare un panorama più vasto, ci accorgeremmo che la riflessione circa il gioco è più profonda e ricca di quanto possiamo immaginare.

Indice dei contenuti:

Quali giocattoli?

La produzione commerciale ha seguito e ancora segue le fila del dibattito pedagogico sul gioco. Tanto che, soprattutto nell’ultimo decennio, ha progettato e promosso un certo tipo di giocattolo: quello educativo. Un giocattolo pensato e costruito con una finalità precisa: l’apprendimento.

Giocattoli progettati per allenare competenze, dichiaratamente didattici. Giocattoli che non ammettono altri modi per essere giocati se non quelli per cui sono stati realizzati. Giocattoli che perdono fascino in fretta, che rispondono ad un'esigenza, pur legittima, strettamente contingente. Giocattoli dotati di tasti e penne elettroniche, giocattoli che parlano e rispondono a comandi, giocattoli che si illuminano e suonano. Giocattoli per imparare a riconoscere i versi degli animali, giocattoli per riconoscere la geografia di un territorio, giocattoli per distinguere e nominare le proprie emozioni, per imparare l’inglese.

Tutti giocattoli che popolano con gran successo gli scaffali dei negozi specializzati, giocattoli che incontrano il gusto della maggior parte delle persone che li acquista con un certo compiacimento.

Tra questa moltitudine certamente si possono fare delle distinzioni, alcuni giocattoli, seppur congegnati con un fine predeterminato, sono di buona qualità, gradevoli e innocui.

Magari sono i bambini stessi a sceglierli!

E poi c’è un’altra parte (esigua ahimè) che produce artigianalmente o che proviene da quella matrice, che si rivolge ad un pubblico altrettanto risicato o, come si definisce oggi, di nicchia. Si tratta di aziende, piccole e grandi, che hanno a lungo riflettuto sull’infanzia, che si interrogano quotidianamente sul significato del giocattolo e del gioco nella loro particolare essenza distintiva. Produttori che hanno perfettamente colto la natura dell’infanzia, la sua semplicità, la sua spontaneità e che hanno saputo tradurre il bisogno in un gesto sensato. Sì, sì, proprio un gesto: un’espressione mimica di un concetto. Un giocattolo apparentemente vuoto, privo di una finalità predeterminata, aperto a infinite possibilità, a trasformasi, ad assecondare l’immaginazione. Un giocattolo autentico, capace di sostare quanto basta nella fantasia del bambino, di dare corpo, forma e senso al gioco del ‘far finta’.

Giocare per giocare

In questo tempo dove tutti hanno bisogno di spiegare tutto, di dare risposte a tutto, dovremmo fermarci e provare a recuperare la dimensione primordiale del gioco. Non esiste una data, un'epoca, un'era geologica in cui il gioco non esisteva. Esso esiste da quando gli esseri viventi hanno popolato la terra. Gli animali giocano, gli umani giocano, chissà forse anche i vegetali… E prima ancora che ci interrogassimo sulle funzioni, sulle potenzialità, sulle connessioni, sul riverbero del giocare sullo sviluppo umano, il bambino preistorico già giocava senza che nessuno teorizzasse nulla… e, nascostamente, apprendeva!

Certo che il progresso, gli studi, le ipotesi, le indagini, le osservazioni ci aiutano e ci supportano nel processo educativo, completando e migliorando il nostro modo di fare educazione a casa e a scuola. È indubbia la gratitudine verso chi ha contribuito con rigore e passione ad allargare il patrimonio di conoscenze. Ma siamo davvero certi che i nostri figli abbiano bisogno di giochi così strutturati? Siamo realmente convinti che solo attraverso un giocattolo didattico il bambino impari? E soprattutto cosa?

Certamente il giocattolo strutturato, quello educativo o didattico allena la tecnica, esercita una funzione, istruisce, implementa le nozioni. Per questo, se ben fatto, è utile al fine per cui è stato progettato. Ma i bambini apprendono comunque e al di là degli scopi dichiarati! Attraverso il gioco spontaneo e il giocattolo destrutturato maturano le facoltà intellettuali, morali ed estetiche. Apprenderanno perciò a sentire, a immaginare, a misurare la loro forza di volontà, a stare in relazione.

Giocare o intrattenere?

Soffermandosi sull’etimologia greca della parola gioco notiamo l’unione di due aspetti: quello legato al divertimento, allo scherzo e un altro più vicino all’educazione, nel senso più ampio del termine. Una dicotomia quasi, tra la leggerezza, tra la spensieratezza dell’atto del giocare e il fine altissimo dell’azione stessa. Il gioco è pertanto apprendere e al tempo stesso soddisfare un bisogno di termini di godimento e soddisfazione personale.

Intrattenere invece implica sì lo svago, il divertimento, l’interesse, ma è la questione dello scorrere del tempo che permea l’intero suo significato.

Se conveniamo sull’idea che il gioco sia espressione di sé, sia il modo dei bambini di imitare e reinterpretare ciò che vedono fare agli adulti intorno a loro, allora non dovremmo limitarci, limitarli con giocattoli che giocano da soli. Oggetti con una forma e una funzione definita, che per definizione non possono diventare null’altro, progettati appositamente per intrattenere, non per giocare.

E allora il legno, la lana, la cera, la carta siano tra le mani dei bambini, abitino nelle camerette. Non perché fanno parte della categoria tanto blasonata dei "materiali naturali", non perché sono politicamente corretti, non perché sono green (non solo!). Ma perché si prestano attraverso le loro caratteristiche a pervadere l’impulso e il gioco di fantasia del bambino. Perché subiscono metamorfosi. Perché sono viventi!

Solo così giocare diverrà un processo significativo, quello stesso che è stato tanto osservato e su cui tanto è stato scritto. Un processo di crescita, di manipolazione, di espressione volitiva, di godimento, di soddisfazione, di sviluppo sensoriale, di educazione estetica. Solo così giocare sarà azione reale e sana, solo così sarà esperienza del mondo, solo così sarà libera.

Rinunciamo per un attimo all’idea che il giocattolo debba addestrare, preparare o impratichire i nostri bambini. Lasciamo invece che quella del gioco sia un'esperienza libera di autodeterminazione, una manifestazione di autoeducazione. Lasciamo che si meraviglino, che non sappiano sempre tutto, che non abbiano a disposizione tutte le risposte, che pratichino la curiosità.

Ogni tanto lasciamoci condurre dai bambini su una nave dei pirati proprio lì in mezzo al salotto e attraverso i loro occhi avvisteremo i coccodrilli con le fauci spalancate bramare i nostri piedi nudi. È bello riempirci di quella stessa soddisfazione, di quella stessa realtà fantastica, di quella amorevole inconsapevolezza. Allora ogni tanto, solo ogni tanto allontaniamo le teorie, non focalizziamoci sui processi, sui perché, sui cosa, ma godiamoci il gioco e teniamo velata tutta la sua potenza. Giocare, nella sua azione educativa, didattica, relazionale, sociale ed esperienziale, agirà comunque, anche se non lo diciamo. Solo ogni tanto, giochiamo, semplicemente giochiamo. Almeno ogni tanto.



Ultimi commenti su Il gioco senza fine

Recensioni dei clienti

Mirea L.

Recensione del 08/08/2025

Valutazione: 5 / 5

Data di acquisto: 08/08/2025

Giocare per giocare! È una delle cose che cerco di esprimere sempre, e che spesso provoca critiche, perché il pensiero di oggi (forse anche di ieri) è che il gioco debba avere sempre uno scopo ben preciso: tirare fuori interessi per un lavoro futuro, imparare a fare questo e quell'altro, ma mai solo e semplicemente giocare per giocare! Darei 10 stelle a questo articolo, perché è una cosa che penso da sempre e che non riscuote mai una grande condivisione

Baristo T.

Recensione del 21/11/2024

Valutazione: 5 / 5

Data di acquisto: 21/11/2024

Bellissimo articolo sull’importanza del gioco fin dalla tenera età dove si apprende come spugne e infatti si dice che “giocando s’impara”. Grazie per questo splendido articolo.

Lia M.

Recensione del 07/11/2024

Valutazione: 5 / 5

Data di acquisto: 07/11/2024

Il gioco è una delle prime attività proposte al bambino, uno strumento che permette al bambino di apprendere con facilità. Ottimo articolo, mi è piaciuto

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