Il copione interiore
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3 anni fa
Leggi un estratto da "Tutta Colpa del Destino?" di Andreas Steiner e scopri l'importanza di riconoscere gli schemi familiari
Alfred Adler, uno dei principali allievi di Sigmund Freud (e uno dei primi a diventare "un infedele" per poter elaborare una personale visione della cosa, con grande irritazione del suo maestro) fu il primo ad aver descritto come le persone tendano a sviluppare uno "stile di vita".
E ciò non comprende solo l'atto più o meno piacevole di arredare il proprio appartamento, la gestione abituale del corso della giornata e la creazione di rituali (come la colazione, la frequenza con cui ci si lava i denti o l'immancabile visione di un programma televisivo domenicale), ma anche atteggiamenti, opinioni consolidate e prassi quotidiane reiterate che possono essere problematiche, come la prepotenza, la testardaggine, gli atteggiamenti da divo/a, l'aggressività, l'alcolismo o l'andare controcorrente sempre e comunque.
In molti casi è ben più di una (cattiva) abitudine perché attraverso lo stile di vita si esprime una parte della propria identità.
Anche sviluppi patologici possono portare alla creazione di uno stile di vita quando, per esempio, tratti depressivi condizionano la quotidianità del soggetto (dormire fino a mezzogiorno, evitare le attività, tenersi a distanza dagli altri esseri umani, aspettative negative sul futuro e sulla vita in generale) oppure quando le persone si definiscono quasi esclusivamente attraverso le loro paure ed evitano tutto ciò che considerano minaccioso.
Lo stile di vita agisce intensamente fin nelle strutture inconsce del nostro sé e fa in modo che vengano reiterati sempre gli stessi schemi, cosa che ci protegge dai cambiamenti e dalle influenze esterne.
Ciò condiziona anche la percezione che, diventando selettiva, s'inceppa: si percepisce solo ciò che è famigliare, mentre ciò che risulta estraneo viene eliminato. Sfortunatamente, questo può includere anche le cose belle dell'esistenza, se lo stile di vita corrispondente è negativo.
Da ciò s'intuisce che uno stile di vita, una volta istituito, diventa abbastanza solido da opporsi ai cambiamenti. Il vantaggio è che può basarsi su abitudini consolidate per cui non c'è sempre bisogno di pensare. Lo svantaggio, di contro, è una grande rigidità, cosa che rappresenta un serio problema specialmente negli stili di vita opprimenti.
Nella terapia comportamentale, che presuppone che tutto sia appreso, da ciò che l'individuo può e sa fare, fino ai suoi stessi problemi, si cercherà quindi di produrre dei cambiamenti attraverso la pratica strategica di nuovi modelli di comportamento. Parecchie terapie falliscono a causa della irriducibilità di uno stile di vita ormai interiorizzato, soprattutto quando l'assenza di cambiamento ne è parte integrante.
Un giorno venne da me in terapia Ulrich. Colpiva per il pallore e la magrezza, era disoccupato da molto tempo, e nonostante fosse dotato di una buona intelligenza (che, dopotutto, gli aveva permesso di conseguire l'esame di maturità), non aveva alcuna formazione professionale.
Nei trent'anni che lo separavano dalla fine degli studi, non era più riuscito a combinare niente. Qualsiasi percorso formativo o attività professionale intrapresa era fallita perché si era ammalato fin dall'inizio o perché, iniziato il lavoro, si era sentito "in qualche modo male". Tutti i soldi che aveva, li aveva spesi in tatuaggi: infatti, eccezion fatta per la maggior parte del viso, non c'era quasi nessuna parte del corpo che non fosse tatuata.
Anche nella terapia con me mise in atto questo suo metodo consolidato per evitare qualsiasi cambiamento adducendo una "malattia" o altri disturbi. Si dimenticava dei compiti che gli assegnavo, o si verificavano costantemente circostanze che gliene impedivano l'esecuzione.
Aveva sempre pronte spiegazioni dettagliate del perché "purtroppo" non era riuscito a fare questo o quello. Di tanto in tanto raccontava entusiasta di una nuova prospettiva, che poi però o non perseguiva o abbandonava sistematicamente. E così, dopo più di un anno di terapia, riuscì a ottenere un posto con contratto di formazione-lavoro come infermiere.
I primi tre giorni non si presentò perché si sentiva "fiacco", motivo per cui fu subito buttato fuori. "L'hai fatto di nuovo!", ebbi cura di dirgli, visto che esempi del genere si erano ormai accumulati.
Dato che non stava facendo progressi, gli suggerii di partecipare a uno dei miei seminari intensivi: li considero una mia specialità e sono una combinazione di metodi di terapia estremamente intensivi, che vanno ben oltre le possibilità offerte dalle sedute individuali. Ma sapevo che non aveva soldi, così gli offrii di frequentare il seminario gratuitamente. Gli spiegai che per me era più importante riuscire a fare qualcosa di concreto per lui, che accollargli un'ulteriore spesa.
Ulrich fu l'unico dei miei clienti a non partecipare al seminario. Quando, due settimane prima dell'inizio, gli chiesi se avesse fatto i preparativi necessari, in un primo momento non sembrò nemmeno ricordarsene: evidentemente non aveva mai considerato sul serio di prendervi parte. "Oh, il seminario...!", disse. All'improvviso la sua voce si fece stanca e fiacca. "Tanto non funzionerà. Sono talmente sfinito...".
Che cosa mai potrà rendere tanto sfinito un beneficiario di lungo corso dell'indennità di disoccupazione?
Non ci venne in soccorso nessuna argomentazione, nemmeno il fatto che era proprio a causa del suo permanente "stato di sfinimento" che stavamo facendo terapia insieme.
Strano a dirsi, ciò succedeva solo ed esclusivamente quando si trattava di un obbligo. Non era un soggetto gravemente depresso, perché aveva sempre sufficienti energie per andare ogni settimana ai concerti rock o per ballare tutta la notte. Al seminario successivo se ne uscì con un'altra scusa così, al terzo seminario, gli spiegai che avrei messo fine alla terapia se non avesse partecipato.
Nel frattempo continuava a lamentarsi del fatto che la terapia non lo stava aiutando. "Se non ci metti del tuo, io non posso certo fare miracoli", ribattevo ogni volta.
Poi si lamentò di conoscere solo "stupide donne borderline", al che, in modo alquanto brutale per i miei standard, gli dissi: "Le brave donne normali, con qualcosa nella loro vita, non si interessano ai tipi come te. Hanno bisogno di uomini in grado di gestire la propria esistenza, che abbiano una formazione e guadagnino soldi; non stanno certo con chi pensa solo ad andare in giro sfuggendo a qualsiasi responsabilità. Solo donne in difficoltà possono cedere a qualcuno come te. Se vuoi che questo cambi, cambia te stesso e smettila di evitare ogni tipo di attività! Una volta che avrai successo, diventerai interessante anche per altri tipi di donna!". Sfortunatamente, nemmeno questo calcio verbale nel sedere sortì alcun effetto.
Il tempo passava e si avvicinava il momento del seminario successivo. Come previsto, Ulrich si diede malato poche settimane prima dell'inizio e non si presentò alla terapia. Per diverse settimane il suo cellulare risultò non raggiungibile, ma appena superato il "pericolo" (il seminario), riprese a funzionare. Ulrich chiese un nuovo appuntamento e io approfittai della sua chiamata per sospendere la terapia. Purtroppo fui costretto a farlo, altrimenti avrei premiato per l'ennesima volta il suo comportamento di costante evitamento.
Peccato: Ulrich non era affatto antipatico nei modi. Ma il suo stile di vita era talmente incentrato sul non fare nulla che non c'era modo di cavarsela. Purtroppo a volte un terapista deve accettare anche questo.
Ulrich era chiaramente dipendente da un copione persistente che si potrebbe intitolare "Sono un fallito". Non era né stupido né disinteressato, né disabile, né malato - ma avere successo (cosa di cui sarebbe stato capace), non rientrava nel copione che aveva dentro di sé. Non era nemmeno consapevole di seguire un piano interiore che gli faceva sembrare il fallimento come una cosa famigliare e il successo talmente estraneo da essere quasi proibito. Inoltre non servì a niente spiegarglielo: se ne "dimenticava" all'istante, perché qualsiasi conoscenza duratura avrebbe potuto avere l'effetto di fargli cambiare qualcosa.
Come accennato prima, i copioni non sono necessariamente negativi.
Avere un'immagine di sé in base alla quale ci riteniamo "bravi" e "okay" ci consente di utilizzare bene le nostre risorse. Può essere una specie di copione anche "Io sono il migliore", il cui effetto è spingere le persone a realizzare cose incredibili, a cimentarsi anche in imprese grandiose senza avere le competenze adeguate.
Anche la capacità di far credere al mondo di essere competente senza esserlo realmente è una dote che non tutti hanno. Lo svantaggio di un simile copione è che la vita si compone di tante facciate e può quindi risultare faticosa. Inoltre, si deve segretamente temere che le altre persone a un certo punto possano accorgersi che molta della nostra radiosa magnificenza non è altro che aria fritta.
Il copione migliore è di andare incontro alla vita in modo spensierato e positivo, pieni di curiosità, orientati al successo in base alle proprie risorse, alla gioia, alle sane amicizie, alle relazioni sentimentali armoniose e alla famiglia.
Diventa problematico solo quando le persone si portano dietro troppi fardelli che, come si è scoperto successivamente, hanno a che fare non solo con le esperienze di apprendimento problematiche nell'infanzia e nell'adolescenza, ma soprattutto con la famiglia d'origine e con i temi a essa legati. Ne parleremo più avanti.