Il "butto" e la permacoltura
Pubblicato
3 anni fa
Tutti produciamo 500 chili di rifiuti in un anno. Lei neanche un grammo: ecco come fa
La permacultura è una modalità per progettare insediamenti umani che dà come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato e bello dal punto di vista estetico. Alla base della permacultura ci sono etiche e principi progettuali, uno dei fondamentali è quello secondo cui non si devono produrre rifiuti.
Sfida impossibile di fronte al dato di 500 chilogrammi di rifiuti prodotti da ogni italiano in un anno. Eppure c’è chi non butta via nulla e quindi non produce rifiuti. Un esempio? Saviana Parodi Delfino, una delle massime esperte italiane di permacultura, fondatrice nel 2006 dell’Accademia Italiana di Permacultura, autrice di libri e divulgatrice.
Saviana, perché la nostra è una società rifiuto-centrica?
Posso risponderti in questo modo. Poiché la nostra società si fondata sulla cultura greco-romana e poi sulle religioni monoteistiche, se noi, ad ogni passaggio di energia, non sprechiamo energia, non abbiamo il controllo sugli altri. Invece, sprecando energia, rendiamo gli altri più schiavi, quindi più dipendenti da un sistema centrale.
Che cos’è la permacultura e come si relaziona al concetto di rifiuto?
Non c’è rifiuto in permacultura. Mi ricordo che al corso che seguii in Australia, una delle frasi bellissime, che poi mi sono portata quando sono andata a fare la biologa molecolare a Washington, era “No waste”, cioè “non c’è rifiuto”, perché niente è un rifiuto. È un punto di vista: quello che noi consideriamo solitamente un rifiuto, può non essere più tale se lo guardiamo da un’altra prospettiva
Ci fai qualche esempio pratico?
Io pago normalmente la tassa sui rifiuti anche se sono anni che non butto più nulla. Qui da me organizzo anche corsi “No Waste” in cui insegno alle persone i principi della permacultura e del cambiamento di punto di vista. Se i corsisti si portano del cibo da casa in contenitori non riciclabili, glieli faccio riportare indietro, proprio per far capire loro cosa vuol dire il fatto che tutto venga riutilizzato. Giusto ieri rimettevo a posto quello che io chiamo il “butto”. Il “butto” è un termine che gli archeologi usano per definire – all’interno della città mediavela – quel luogo in cui venivano depositati tutti gli oggetti che si rompevano. Nella città medievale non c’era rifiuto e chi aveva bisogno di materiale andava nel butto a recuperarli. Quindi, il mio “butto” è un luogo in cui metto tutti materiali che non sto utilizzando in quel momento. Quando ho bisogno di qualcosa, che sia in metallo, in plastica o in legno, vado a vedere se, per caso, nel butto ho qualcosa che mi può servire per essere poi trasformato in qualcos’altro.
Certamente c’è bisogno di spazio e non bisogna diventare dei maniaci dell’accumulo per gestire un butto con cognizione. In questo momento, ad esempio, sto costruendo un pollaio con bottiglie in plastica e in vetro, con pezzi di tegami vecchi, materiali di ogni tipo, che sono arrivati qui da qualche altro luogo e in qualche altro tempo. Sto
usando tutta roba che avrei dovuto buttare via per costruire qualcosa di nuovo e utile.
Immagino che tu non compri niente che abbia una confezione, ad esempio prodotti per l’igiene del corpo, per pulire la casa…
Per il corpo e per pulire la casa uso i microrganismi che mi faccio da sola (i microrganismi effettivi, ovvero un mix di ceppi di lattobacilli, lieviti, actinomiceti e batteri fotosintetici utili in agricoltura, perla pulizia della casa, della persona e in tantissimi altri ambiti della vita quotidiana, ndr). Per pulire me stessa non uso niente tranne uno straccettino, un asciugamano e dell’olio di lavanda, che viene prodotto qui a Castel Giorgio. Mi capita a volte di comprare prodotti con una confezione in vetro o in
plastica: in questi casi cerco sempre di trovare una collocazione e una funzione a questi oggetti.
Ad esempio: se ho dei pezzi di plastica, tipo sacchetti della pasta o cose del genere, li infilo dentro a una bottiglia di plastica, tutti ben pressati, aggiungo dei microrganismi, li chiudo e li metto sempre nel “butto”. In questo modo lascio il tempo ai microrganismi di conoscere questi materiali, che anticamente erano sostanze organiche. Credo che in questo modo, nel tempo, i microrganismi svilupperanno dei ceppi in grado di degradare questi materiali.
Ci metteranno cento o mille anni? Non importa. Almeno ho liberato della materia da un sistema, quello della gestione centralizzata e cittadina dei rifiuti, che non ci permettere di essere autosufficienti nella gestione di ciò che non usiamo.
Per quanto riguarda le fogne, sei allacciata alla rete fognaria?
No, ho una compost toilet dentro casa, che ho fatto io, ma che non usiamo mai. Abbiamo due compost toilet fuori casa e usciamo. All’interno l’abbiamo fatta per i casi di emergenza: se un giorno hai una caviglia rotta, oppure fuori diluvia e proprio non hai voglia di uscire, in casa c’è. Ogni 10-15 anni le svuotiamo e le gestiamo, utilizzando il compost per l’orto soprattutto
Il tipo di vita che tu conduci è incompatibile con la vita in città?
No, non lo è. La città medievale era esattamente questo. La città medievale è stata l’ultima città progettata in permacultura: niente usciva, tutto veniva riutilizzato e riciclato. Quindi non è incompatibile, nel senso che anche in città si possono raccogliere le acque, ripulirle e renderle potabili; si può avere una piccola compost toilet sul terrazzo, ma anche dentro casa.
Chiaramente ogni situazione e ogni circostanza cambia. Non è che esista l’azione buona, esiste il lento miglioramento di ognuno di noi nelle nostre vite quotidiane. Nulla è incompatibile.
Secondo te, dal punto in cui siamo arrivati -nel senso che ormai non sappiamo più dove mettere questi rifiuti – ne dobbiamo uscire?
Ne usciamo? Come ne usciamo?
No, non ne usciamo. Da quante migliaia di anni gli esseri umani s’ammazzano tra di loro? Sono quasi 6.000 anni. Ne siamo mai usciti? No. Tante belle parole, tante cose carine, però niente. Le cose che diciamo noi oggi, le leggi nel VI secolo prima di Cristo, nel terzo dopo, nel mille dopo. Le leggi sempre. Tutti dicono: «Siamo arrivati a questo punto! E adesso?».
Non ne dobbiamo uscire, non è questo il punto. Il punto è che, attraverso questi problemi, ognuno di noi, prima in maniera individuale poi in maniera collettiva, deve evolvere. Non deve insegnare niente agli altri, deve fare il proprio percorso, avere i propri problemi, considerarli e poi evolvere
Hai ideato e portato avanti progetti in permacultura in tutto il mondo: Venezuela, Burkina Faso, Turchia, Israele, Romania, Ungheria. Qual è lo scopo di questi progetti?
Per me è quello di rendere le persone più indipendenti possibile, di far capire loro che il lavoro che stanno facendo serve a loro stessi, per la loro evoluzione spirituale. Non è credo che lo scopo sia lasciare una terra o un luogo migliore di quando lo abbiamo trovato, credo che il fine sia salire un grandino di consapevolezza in questa vita. E farlo come se fosse un gioco, quindi con la rilassatezza del gioco, ma sempre con la volontà di riconoscere gli errori. Gli errori sono importantissimi perché ci permettono di migliorare un poco alla volta, giorno per giorno, imitando un quello che conosciamo dell’evoluzione sul pianeta.
Cosa pensi di tutti noi che viviamo in città, distanti dalla terra e dalla natura?
Grande amore e grande compassione. Non lo so! Io sono cresciuta in campagna, poi sono stata a Milano per qualche anno (troppi) e a Roma (anche troppi!). Non posso pensare niente. Secondo me, uno può evolvere anche in città, mangiando take away.
Non è questo che cambia. Penso che sia più un essere presenti in ciò che uno sta facendo in quel momento. Se sei in città e non puoi avere il compost toilet , non è che tu non sia bravo, devi però essere consapevole di quello che stai facendo; quando vai e compri, devi perlomeno esserci.
A me piace tantissimo, riguardo ai progetti che ho realizzato, quando torno dopo 5 o 10 anni e vedo le persone più rilassate, più contente e più sane. Io dico sempre che in questa vita dobbiamo imparare a morire sani e felici. E presenti in quel momento.
È questo che dobbiamo fare.
Oggi sempre più persone vorrebbero cambiare vita, lavoro, ritornare alla campagna, alla natura: spesso rimangono sogni. A volte quello che blocca è la mancanza di soldi…cosa ne pensi?
È da troppi millenni che siamo schiavi, che tendiamo ad essere schiavi, a volte di noi stessi e della nostra mente. Una vita come quella che faccio io è per tutti? Beh, svegliarsi e rendersi conto che la propria vita non va è per tutti. Poi, modificarla è in che modo, è
una decisione individuale. È ovvio poi che vivendo in piena apertura con boschi e luoghi dove gli ecosistemi lavorano da soli e creano campi elettromagnetici molto potenti, è più semplice arrivare a queste conclusioni. Però sono certa che sia per tutti svegliarsi e modificare la propria vita, anche di poco.
La paura è normale, i soldi invece sono un pretesto. I progetti più belli li ho fatti senza soldi. In Burkina non avevamo niente: avevamo 28 contadini e una contadina e attrezzi così così, ma avevamo buona volontà, per cui in un mese abbiamo fatto delle cose meravigliose. Quindi, non servono i soldi. Purtroppo, la paura ci blocca perché siamo schiavi, schiavi della nostra mente e anche di altre situazioni, come schemi mentali, culturali. Svegliarsi è per tutti, poi come tu ti trasformi in questo risveglio
non lo si può dire: qui ognuno fa un po’ come vuole.