Cotone: è davvero sostenibile?
Pubblicato
1 anno fa
Alice Valli
Dietista ed esperta di sostenibilità e abbigliamento naturale
Scopri perché le fibre naturali non sono tutte uguali e quali sono le certificazioni tessili che garantiscono che un capo di abbigliamento sia sostenibile per l'ambiente e sicuro per la tua salute
Sono biodegradabili, provengono da risorse rinnovabili e spesso richiedono meno energia nel processo di produzione rispetto alle loro controparti sintetiche: le fibre naturali, quali cotone, lino, seta e lana, hanno da sempre goduto di una reputazione nettamente migliore in termini di sostenibilità se paragonate a fibre artificiali, quali nylon o poliestere.
Tuttavia, dietro l’apparente semplicità di un’etichetta “100% cotone”, si nascondono aspetti che meritano un’attenzione più approfondita.
In questo articolo ci soffermeremo sul cotone, analizzando in che modo un capo realizzato con questa fibra naturale non sia sempre eco-friendly.
Scopriremo quindi come imparare a leggere davvero l’etichetta, così da essere in grado di scegliere un cotone davvero sostenibile.
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Naturale non è sinonimo di sostenibile
Influenzate dalla moda, dai media o dall’effettiva necessità per il nostro pianeta di compiere azioni più ponderate in termini di acquisti, è impossibile non notare quanto le nostre scelte in ambito di abbigliamento siano ormai caratterizzate da una sempre più crescente sensibilità verso l’impatto ambientale che i capi che decidiamo di acquistare producono.
Le fibre naturali, e in particolare il cotone, possono quindi sembrare una scelta ovvia quando si pensa alla moda sostenibile.
Eppure, naturale non è sinonimo di sostenibile e, nonostante certe fibre siano naturali e possano offrire vantaggi ecologici rispetto alle fibre sintetiche, questo non significa che siano automaticamente anche prive di impatto sociale e ambientale.
Il cotone: fibra naturale ma la meno sostenibile
La coltivazione del cotone è senza dubbio il caso più esemplificativo, essendo un materiale ampiamente utilizzato nell’industria tessile, grazie a caratteristiche intrinseche particolarmente desiderabili quali morbidezza, traspirabilità e versatilità.
Nonostante ciò, però, è forse il tessuto naturale che presenta il maggior numero di sfide in termini di sostenibilità.
Impronta idrica e utilizzo di pesticidi
Dati alla mano, la produzione globale di cotone non è infatti per niente green, considerando che secondo il Water Footprint Network la coltivazione di un chilogrammo di cotone necessita dai 10.000 ai 20.000 litri di acqua o che, secondo il WWF, ne occorrono invece circa 2.700 per produrre il cotone necessario per una singola T-shirt.
L’impatto idrico non è però il solo aspetto che rende questa coltivazione estremamente insostenibile: l’enorme domanda mondiale di cotone si traduce infatti in coltivazioni estesissime e intensive che impoveriscono il terreno e inquinano suolo e aria.
Per farsi un’idea dell’entità della coltivazione del cotone a livello mondiale possiamo considerare il caso degli Stati Uniti, ad oggi il terzo produttore al mondo di cotone, dove viene coltivato su un’area di oltre quasi 5 milioni di ettari, una superficie che supera addirittura l’estensione di tutta la Pianura Padana.
Su queste vaste aree l’utilizzo di fertilizzanti per garantire raccolti abbondanti è senza dubbio massivo, ma sono i numeri riguardanti l’uso di pesticidi che dovrebbero invece allarmarci.
Secondo la World Health Organization (WHO) il cotone è infatti una delle colture più trattate con pesticidi al mondo. Nonostante le coltivazioni di cotone ricoprano solo il 2,4% delle terre agricole, l’uso di pesticidi è elevatissimo: rappresenta infatti addirittura il 16% del consumo mondiale.
Questa malsana associazione si traduce purtroppo sempre più spesso in problemi dermatologici come irritazioni cutanee, allergie, arrossamenti e, in casi di esposizione prolungata a tali sostanze chimiche, anche in gravi danni alla salute.
Sfruttamento della manodopera, impatto sulla biodiversità e deplezione del suolo
Se gli effetti dei pesticidi utilizzati sul cotone sono evidenti tra gli acquirenti, ancora più marcati sono gli effetti sulla salute dei lavoratori delle piantagioni e delle comunità agricole limitrofe.
La sostenibilità di un prodotto si misura infatti anche dalle condizioni di lavoro delle persone coinvolte nella catena di approvvigionamento, che nel caso delle coltivazioni di cotone sono ancora paragonabili alle situazioni del “colonialismo”. Lavoro minorile e discriminazione sono infatti i pilastri dello sfruttamento della manodopera a basso costo da parte delle grandi multinazionali. La maggior parte delle piantagioni si trova infatti in paesi poco sviluppati o territori scarsamente sottoposti a controlli sui diritti dei lavoratori, come Cina, India, Pakistan e Turchia.
Ad aggravare questo scenario è poi l’enorme impatto sulla biodiversità e l’impoverimento del suolo, risultato di pratiche agricole intensive e della monocoltura del cotone che, esaurendo i nutrienti del terreno, ne compromette la fertilità a lungo termine richiedendo l’utilizzo ancora più massivo di fertilizzanti e pesticidi. Si crea così un circolo vizioso definibile tutt’altro che naturale e sostenibile.
La soluzione? Considerare l’intero ciclo di vita del prodotto
Di fronte a questo panorama, risulta chiaro che non ci si possa accontentare di basarsi esclusivamente sull’etichetta “100% cotone” per affermare di aver fatto una scelta sostenibile.
Per verificare realmente la sostenibilità di un capo d’abbigliamento in cotone è necessario considerare infatti l’intero ciclo di vita del prodotto, dalla coltivazione alla lavorazione, dalla produzione, alla distribuzione e infine allo smaltimento finale, in quanto ogni fase del ciclo di vita del cotone ne influenza l’impatto complessivo sull’ambiente e sulla società.
Da dove iniziare quindi? La chiave per fare la differenza risiede nelle scelte che compiamo quotidianamente in merito ai nostri acquisti e nell’adozione di pratiche di consumo sostenibile, essenziali per mitigare l’impatto ambientale e sociale dell’industria tessile.
Il cotone biologico
Un passo concreto in questa direzione è sicuramente l’acquisto di abbigliamento realizzato in cotone biologico. Il cotone biologico (o cotone organico) rappresenta infatti un’alternativa sostenibile al cotone “standard”, essendo coltivato seguendo le linee guida dell’agricoltura biologica esattamente come avviene con i prodotti alimentari e, proprio come per questi ultimi, presentando la certificazione “di origine biologica”.
Grazie alla certificazione, il prodotto ci garantisce pertanto di essere sottoposto alle rigide regole della coltivazione bio: esclusione di centinaia di sostanze tossiche tra fertilizzanti, pesticidi e diserbanti e tutela dei diritti dei lavoratori.
Oltre all’aspetto etico, la coltura biologica del cotone gode di numerosi lati positivi in termini di agricoltura, primo tra tutti un netto risparmio idrico. La maggior parte del cotone biologico viene infatti coltivato in aziende di piccole dimensioni che tendono a preferire l’acqua piovana rispetto all’irrigazione intensiva. Inoltre, dal momento che non sono previsti fertilizzanti o pesticidi, la necessità di acqua si riduce ulteriormente rispetto alle colture geneticamente modificate.
Queste ultime, infatti, necessitano di una quantità d’acqua nettamente superiore rispetto ad un terreno non impoverito dall’utilizzo di pesticidi e sostanze chimiche, essendo progettate proprio per assicurare una resa maggiore. Ad oggi, il cotone OGM rappresenta il 94%del cotone non biologico.
Di pari passo con il risparmio idrico, nella coltivazione di cotone biologico si pratica la rotazione delle colture, una tecnica agricola che non impoverisce il terreno ma, al contrario, lo rende più fertile.
Le certificazioni del cotone biologico
Come capire quindi se il cotone che stiamo per acquistare è biologico o no? La risposta si trova all’interno dell’etichetta del capo d’abbigliamento, rappresentandone a tutti gli effetti la carta d’identità. La lettura virtuosa dell’etichetta è difatti il modo ideale per assicurarsi che un capo in cotone rispetti gli standard internazionali a tutti i livelli di produzione.
Esistono quattro principali certificazioni riconosciute:
- Global Organic Textile Standards (GOTS): questa è una delle certificazioni più riconosciute a livello internazionale per i tessili biologici. Il GOTS garantisce che il cotone biologico sia stato coltivato senza l'uso di pesticidi sintetici o fertilizzanti chimici dannosi per l'ambiente. Inoltre, stabilisce standard rigidi per la lavorazione e la trasformazione del cotone, assicurando che venga utilizzata acqua in modo responsabile e che siano rispettati i diritti dei lavoratori lungo l'intera catena di produzione.
- Organic Content Standard (OCS): questa certificazione verifica la presenza e la quantità di materiale organico nei prodotti tessili, compreso il cotone. Garantisce che una determinata percentuale del materiale sia biologica, ma non fornisce garanzie sugli altri aspetti della produzione come la lavorazione o le pratiche sociali.
- Fair Trade Certified Cotton: questa certificazione si concentra non solo sull'aspetto biologico della coltivazione del cotone, ma anche sugli aspetti sociali ed economici, garantendo altresì che agli agricoltori sia stato garantito un salario minimo.
- Oeko-Tex: un sistema di controllo e certificazione indipendente e uniforme a livello internazionale che garantisce che i loro prodotti tessili, bio e di qualità, siano stati testati in laboratorio per escludere la presenza di sostanze nocive.
Il cotone rigenerato
Se da una parte la prospettiva del cotone biologico è senza dubbio un’alternativa sostenibile rispetto al cotone tradizionale, è importante però tenere conto che questa coltura rappresenta purtroppo solo l’1% della produzione mondiale di cotone.
Pertanto, un’ulteriore possibilità per compiere una scelta sostenibile in termini di abbigliamento è quella di acquistare cotone rigenerato.
Il cotone rigenerato, che sull’etichetta riporta la sigla GRS (Global recycle standard), è difatti l’unico cotone che non necessita di coltivazione, essendo appunto prodotto a partire da scarti tessili che, dopo essere stati sfilacciati e ridotti in fibre, vengono nuovamente filati.
L’unico difetto risiede nelle dimensioni ridotte della fibra, che quindi necessita di essere rafforzata con una minima percentuale di cotone naturale o fibre sintetiche per renderla più resistente.
Considerazioni finali: verso una moda veramente sostenibile
Ecco dunque che il cotone risulta essere una fibra che passa il check della sostenibilità solo quando deriva da agricoltura biologica oppure quando proviene da riciclo. Sebbene sia ritenuto una scelta relativamente più eco-sostenibile rispetto alle fibre sintetiche, dovremmo accertarci della sua reale sostenibilità verificando diversi fattori senza limitarci alla mera composizione riportata dall’etichetta.
Per promuovere una moda veramente sostenibile è quindi necessario superare la superficie dell’etichetta “100% cotone” e adottare invece un approccio olistico alla sostenibilità della moda, in quanto solo considerando l'intero ciclo di vita del prodotto potremo veramente valutare il suo impatto sull'ambiente e sulla società.
La ricerca di capi di cotone provenienti da fonti sostenibili e prodotti mediante pratiche responsabili risulta pertanto fondamentale per promuovere un futuro più eco-compatibile sia per l'industria tessile che per la nostra salute.
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