Sai chi ha fatto i tuoi vestiti?
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1 anno fa
La trasparenza in etichetta è un diritto che come consumatori non possiamo più aspettare, per compiere finalmente scelte etiche e sostenibili anche quando acquistiamo abbigliamento
Ci chiediamo mai come sia stato realizzato il nostro maglione preferito oppure l’abito che ci piace di più indossare? I capi che indossiamo sono lo specchio della nostra personalità. Quasi tutti noi scegliamo cosa acquistare sulla base del modello, del colore, del prezzo e delle nuove tendenze. Un aspetto sul quale troppo spesso non ci soffermiamo è quello dello spreco legato all’industria dell’abbigliamento e dei retroscena che si celano dietro i capi che vediamo esposti nelle vetrine. Il fast fashion, la “moda veloce” che le grandi catene propongono al ritmo di 50 micro-collezioni nel corso di un unico anno, si basa sul concetto di acquisto d’impulso, di accumulo e di spreco. Si tratta di una vera e propria “moda dell’usa e getta”. Ma dove finiscono tutti gli abiti invenduti? Abbiamo poi veramente bisogno di cambiare il nostro guardaroba ogni pochi mesi, quando potremmo reinventare e rivedere ciò che già abbiamo? Per non parlare poi dell’impatto ambientale che questa catena produttiva ha nel breve e lungo termine, delle risorse sprecate per produrre così tanti abiti, delle cataste di tessuti inutilizzati lasciati in deposito perenne nei magazzini. Per parlare di tutto questo abbiamo incontrato Orsola De Castro* – attivista nel campo della moda sostenibile riconosciuta a livello internazionale e autrice del libro I vestiti che ami vivono a lungo.
Nel 2013 in Bangladesh accade un evento che lascia il mondo senza parole e mette tutti di fronte all’evidenza dell’insostenibilità sociale e ambientale dell’industria della moda. Si tratta del crollo, a causa di un cedimento strutturale, del Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani che ospitava – oltre a banche, appartamenti e altri uffici – anche alcune manifatture tessili che producevano abbigliamento per noti marchi. Nella tragedia perdono la vita 1.134 persone, per la maggior parte donne. Cosa ci racconta questo fatto del sistema di produzione della moda?
La tragedia del Rana Plaza è stata predetta: i segni di cedimento strutturale erano evidenti, tanto che uffici e appartamenti erano stati sfollati, mentre i lavoratori del tessile erano stati in un primo momento mandati a casa, poi però il giorno successivo (quello della tragedia) erano stati richiamati al lavoro. Si tratta quindi di un evento che poteva essere evitato. Purtroppo non è stata né la prima né l’ultima tragedia di questo genere a cui abbiamo assistito: tre anni, prima sempre in Bangladesh, un grande incendio in una fabbrica aveva causato molte vittime e recentemente ci sono stati disastri in India e in altri Paesi. Rana Plaza ha dato il via a una presa di coscienza globale sia da parte dei consumatori, ma anche da parte dei brand globali. La maggior parte di essi, infatti, non sapeva se la propria filiera produttiva comprendesse o meno il Rana Plaza. La poca trasparenza e tracciabilità della filiera è emersa come problema agli occhi di tutti. Questa opacità – anche voluta – ci ha dato la spinta per fondare Fashion Revolution, il movimento globale che lavora per cambiare l’industria della moda, rendendola sostenibile a livello sociale e ambientale (movimento di cui oggi non faccio più parte). Al tempo nacque la campagna Who made my clothes (chi ha fatto i miei vestiti) e il relativo hashtag, che ha fatto il giro del mondo, portando l’attenzione dei singoli e delle imprese sul rispetto dei diritti dei lavoratori del mondo della moda.
Ci sono stati dei passi avanti sulla tutela dei diritti primari di sicurezza, salute e retribuzione per questi lavoratori – che possiamo definire come gli schiavi moderni – da quel 2013? Cosa è cambiato?
L’industria della moda ha contatti continui con lo schiavismo moderno. Quello che è cambiato è la consapevolezza di un problema enorme e la pressione che alcune organizzazioni stanno facendo sulle imprese perché queste siano maggiormente trasparenti, indaghino e dichiarino che nelle proprie supply chain non vi sia traccia di schiavismo e che i principali diritti dei lavoratori vengano rispettati. Dal punto di vista di noi cittadini, di noi clienti di questi brand, è cambiato moltissimo. Conversazioni che prima erano non plausibili o anche un linguaggio, ad esempio la parola “trasparenza”, che fino al 2015 non veniva usata regolarmente per descrivere l’industria della moda, adesso sono concetti molto capiti, concetti che la stampa ha spinto, concetti che noi cittadini cominciamo a tenere presenti quando acquistiamo vestiti. All’interno dell’industria purtroppo è cambiato ben poco: noi abbiamo messo l’industria lontano dalle nostre terre, per evitare di vederne i problemi. I cambiamenti veri li vedo riguardo alla consapevolezza delle generazioni che stanno arrivando adesso, non solo i giovani designers, i giovani operatori della moda, ma anche i super giovanissimi che, due anni fa, marciavano con Greta Thumberg e che adesso si rendono conto che il loro modo di vestire ha un impatto sociale e ambientale molto alto.
Qual è l’impatto ambientale dell’industria della moda oggi?
È un impatto altissimo, non solo perché è un’industria che impiega milioni di persone, ma anche perché è un’industria che sfrutta le risorse. Il punto fondamentale, però, è che si tratta di un’industria che non ha regole. Nell’industria del cibo o del beauty, ad esempio, hai un obbligo, cioè quello di comunicare ai tuoi clienti i prodotti che stai usando, gli ingredienti, se ci sono prodotti chimici e quali. Nella moda, invece, niente di tutto ciò. Per cui, in realtà, la moda non solo inquina a livello di produzione, ma implica anche che siamo noi a inquinare mentre usiamo i nostri vestiti.
Ciò che noi attivisti richiediamo è di avere tutte le informazioni necessarie per potere, almeno da parte nostra, essere positivi nell’uso di questi vestiti. Faccio un esempio: quando compri uno yogurt, controlli gli ingredienti, vedi la durata, quindi hai modo di decidere se comprare quel prodotto, oppure se comprarne uno diverso. Nel campo della moda non hai assolutamente le stesse garanzie. Non solo non si può sapere con precisione dove vengono fatti i nostri abiti, ma assolutamente non si possono sapere neanche gli “ingredienti”. Anzi, più vai indietro nella filiera, più diventa inverosimilmente difficile capire come funzionino le cose. Io credo che noi, come clienti, abbiamo assolutamente il dovere di richiedere che queste informazioni ci siano date quotidianamente, su tutti gli abiti, affinché noi possiamo prendere le nostre decisioni riguardo all’acquisto.
Hai detto che anche noi inquiniamo mentre usiamo i nostri vestiti: in che senso?
Dobbiamo pensare a come manteniamo e laviamo i nostri vestiti. Anche in questo ambito possiamo richiamare la saggezza legata al cibo. Ad esempio: tieni una torta in frigo, ma non i biscotti. Eppure sono fatti con gli stessi ingredienti. Noi, nella moda, per quanto riguarda i nostri vestiti, da quando c’è questa iper produzione, infiliamo tutto nella lavatrice, senza impegnarci a guardare che cosa ci sia in questi materiali, sapendo che questi materiali hanno un impatto ambientale molto profondo. Il poliestere, ad esempio, rilascia milioni di microfibre. Sono state trovate microfibre dal profondo dell’oceano fino al monte Everest e piovono su di noi.
Metà dei vestiti fast fashion è di plastica, ma se parliamo di un prodotto come la pelle, le cose non cambiano a livello di impatto ambientale.
Come cittadini abbiamo il diritto di sapere cosa ci mettiamo addosso, anche perché sappiamo che la nostra pelle assorbe quasi come lo stomaco, quindi noi stessi assorbiamo sostanze che potenzialmente sono dannose.
Hai parlato del poliestere. Se scegliamo il cotone, facciamo una buona scelta a livello di impatto ambientale?
Il cotone è un materiale che inquina profondamente e beve acqua. L’acqua impiegata per la produzione del cotone, inoltre, non è che poi sparisca, ma viene contaminata con pesticidi e da qualsiasi tipo trattamento, dopodiché l’acqua continuamente si ricicla, quindi ci ritorna addosso contaminata.
C’è anche una grandissima disinformazione, che spesso purtroppo tocca anche i giovanissimi, sul fatto che un materiale naturale sia biodegradabile. Se tosi una pecora e la lana finisce per terra, sì, nel senso che quella lana tornerà a far parte della materia del terreno. Se però una lana è stata trattata con prodotti chimici, con anti-infiammanti può essere un prodotto naturale quanto ti pare, ma certamente non sarà biodegradabile in maniera naturale e, comunque, nella sua decomposizione creerà dei grossissimi problemi, soprattutto se teniamo conto delle quantità.
Il punto è che bisogna sempre andare un po’ oltre, perché la soluzione non è mai una sola, quindi l’importante è avere voglia di scoprire di più, di capire quali sono i materiali giusti per te e come utilizzarli. Ad esempio, il poliestere e la viscosa sono due materiali molto impattanti. La viscosa è legata alla deforestazione, quindi stiamo parlando di foreste vergini e alberi di 400-500 anni che vengono utilizzati per una maglietta che mettiamo tre volte. Bisogna veramente imparare a capire questi ingredienti. La lana merino, ad esempio, che ha un alto mantenimento, è perfettamente utilizzabile per materiali sportivi, ha bisogno di meno cura, non prende gli odori e ha un’interazione diversa con il nostro corpo. C’è, dunque, un po’ di ricerca da fare. Però ci sono le alternative, che cominciano a svilupparsi sempre di più.
Parliamo del denim, un tessuto iconico, che noi tutti abbiamo nell’armadio, declinato in vari capi: dai jeans, ai giubbotti, alle camicie. Questo denim, che spesso acquistiamo trattato con effetto invecchiato, come viene realizzato?
Il denim finto sfrangiato, finto vissuto, per quanto mi riguarda è la follia totale: i lavoratori di questo settore vengono pagati pochissimo, inoltre l’invecchiamento è un processo davvero molto inquinante. La caratteristica di questo tessuto è la durabilità, pertanto il processo di invecchiamento viene fatto con sostanze ad alto impatto per la salute dei lavoratori, nostra e dell’ambiente. Ognuno di noi può far invecchiare il proprio denim in maniera “naturale”: ognuno di noi ha una vita diversa dall’altro e il nostro denim invecchia con noi, prende la nostra forma, segue il nostro destino. Se sono un pittore, il denim sarà coperto di inchiostro, se sono un giardiniere avrà rimasugli di terriccio, per cui sarà rovinato dal terreno, e via dicendo. Il denim che acquisto già invecchiato è come una medaglia con due facce, entrambe negative: è super inquinante e dice veramente poco di e male di noi.
Ma faccio una riflessione che va oltre. Questo denim stracciato e sfrangiato mi interessa dal punto di vista culturale, perché io adoro i vestiti rotti, però non capisco una cosa: se c’è un’industria che promuove un denim tutto rotto, allora perché non possiamo far rompere anche un golfino o un vestito? L’estetica è quella, è l’estetica del vissuto. Io preferisco vivere i miei vestiti e rovinarli con le mie azioni, perché sono le mie memorie, nel senso che mi ricordo come si è sfrangiato un orlo, come si è bucato un golf, mi ricordo che cosa facevo quando ho fatto quella macchia. Magari mi sono divertita profondamente e anche se ho una macchia di vino rosso su un vestitino bianco me la tengo, mi diverto, mi piace, magari la rielaboro disegnandoci. Sostanzialmente è la nostra vita dentro i vestiti. Invece, in questo momento, purtroppo sono lo sfruttamento e il dolore delle persone che lavorano nella filiera a essere dentro i nostri vestiti.
Un altro fatto che racconti nel tuo bellissimo libro – I vestiti che ami durano a lungo - e che non conoscevo, riguarda i capi che noi acquistiamo in prova nei vari shop online. Noi crediamo che quei capi, quando li rendiamo, vengano rimessi nel circuito commerciale. Invece cosa succede a quei vestiti?
Se si sapesse avremmo risolto il problema. Assolutamente non si sa, ma non rientrano in circolazione. Se ci si pensa logicamente, lo si capisce da soli, nel senso che queste collezioni partono da magazzini giganteschi, ma non tornano in quel magazzino, perché non c’è essere umano che si metta lì, li controlli e li rimetta in circolazione. Devo dire che, da quando ho scritto il libro, so che questa cosa è stata presa in considerazione, perché lo scandalo è stato seguito anche dai media. Si spera, quindi, che in futuro si trovino dei sistemi migliori, e ci sono sicuramente dei brand che stanno sperimentando per cambiare questo grossissimo problema. Sono però le quantità che i brand producono in sé a raccontarti una storia impossibile. Nel 2016 si producevano oltre 350 miliardi di capi di vestiti. E non sto parlando di accessori. Non ci vuole quindi un genio matematico per capire che non ce li metteremo mai tutti quanti addosso. Dove vanno a finire? Sfortunatamente vanno a finire nelle stesse nazioni che sono state da noi sfruttate per centinaia di anni, quindi nell’Africa del Sud Sahara, ad Haiti, nell’Est Europa. Finiscono in nazioni che non hanno delle infrastrutture per poi riciclarli adeguatamente, così come non le abbiamo peraltro neanche noi. Un’industria dedicata al riciclo del tessile c’era – basti guardare alla città di Prato, che tuttora regna suprema riguardo all’innovazione del cucito – ma è stata decimata, perché in realtà, le fibre tessili, che sono sempre più miste, non si possono facilmente riciclare e riproporre come fibra.
Questo è anche uno dei grandissimi problemi della cosiddetta “circolarità” e, con l’eccesso che stiamo vedendo, nessun sistema può essere sostenibile o a basso impatto.
Abbiamo anche un altro problema, cioè quello di una narrativa che ci è stata imposta negli ultimi vent’anni, alla quale nessuno di noi si è mai ribellato: è l’idea che il fast fashion sia fatto talmente male che non valga neanche la pena ripararlo, quindi, quando ti si stacca la cerniera, via la gonna! È una narrativa veramente pericolosa, nel senso che non c’è niente al mondo che non meriti di essere riparato, dal più cheap al più caro. Anzi, dirò di più: gli abiti fast fashion sono anche i più facili da riparare. Io non consiglio a nessuno di andare a prendere un abito vintage firmato e di provare a ripararlo, perché per quello bisogna andare sì da sarte professioniste.
Ma a una gonna di una qualsiasi brand che trovo al centro commerciale, se le casca l’orlo, chi se ne accorge se gli fai un orletto, non proprio da sartina più brava del mondo? Quindi è doppio l’obbligo di ripararli ed è doppio l’obbligo, per quanto riguarda i brand, di prendersi la responsabilità di farlo. Io voglio vedere stazioni di riparazione in tutti i fast fashion brand, sicuramente in quelli nelle grandi città, sicuramente uno per città.
Qual è il gesto, come consumatori, più responsabile che possiamo fare nei confronti di un capo di abbigliamento?
Non ce n’è uno, ma varia da individuo a individuo. Non dico che tutti quanti debbano arrivare a essere attivisti sfegatati, ma ognuno di noi interpreterà e avrà la propria camminata, il proprio percorso.
Facciamo però qualche esempio. Innanzitutto puoi iniziare a guardare il tuo guardaroba e analizzare le tue abitudini. E puoi cominciare anche ad avere un po’ di fiducia. Non è difficile. Spesso ci nascondiamo dietro a questo schermo di “difficile” e di “complicato”, ma se si prende il tempo dovuto e si pensa a quando siamo passati dall’andare a comprare nel negozio sotto casa a comprare on line, abbiamo dovuto sviluppare dei criteri completamente diversi per lo shopping, abbiamo dovuto imparare a comprare diversamente, a cercare le cose diversamente. E ci abbiamo messo un po’ di tempo. Adesso siamo tutti provetti compratori on line. Cambiamo i criteri.
Non domandarti solo quanto ti fa stretta la vita o come ti sta bene il taglio, ma pensa e cerca informazioni relative a chi ha fatto il capo. Cerca più informazioni possibili. Non le trovi? Per me è l’equivalente di non avere trovato la taglia giusta. Via! Proviamo un altro brand. Altrettanto vale per il colore. Stai cercando quel rosa perfetto? Cos’è il rosa perfetto? Fino a ora il criterio era quello di dire che ci piaceva quel rosa. Da adesso abbiamo un altro criterio: vediamo cosa c’è dentro quel rosa. Questo brand mi sta dando delle informazioni rispetto ai materiali, rispetto ai chimici che sono contenuti, rispetto alle tinture? Non ci sono queste informazioni? Allora, per me, quel rosa non va bene. Via! Cambio brand.
La tua scelta principale, che proponi poi anche nel libro, è quella di acquistare il meno possibile e di riutilizzare e indossare il più possibile quello che abbiamo già, riparandolo, aggiustandolo o reinventandolo. Puoi raccontarci brevemente le ragioni di questa scelta e darci qualche consiglio per metterla in pratica?
Per me i vestiti raccontano il ricordo: il ricordo della mia mamma, di mia zia, delle mie cugine, con le quali ci scambiavamo i vestiti, della mia migliore amica. Sono stati una fonte di grandissimo divertimento. Nel libro parlo di un paio di pantaloni di colore arancione che comprai a Roma non ricordo quanti anni fa, comunque quando non andavano assolutamente di moda i pantaloni a vita bassa. Questi, invece, erano proprio bassissimi nella vita e molto larghi. Io ci ho fatto due gravidanze, la mia migliore amica ci ha fatto una gravidanza, mia figlia ci ha fatto la gravidanza, la migliore amica di mia figlia ci ha fatto una gravidanza. Quindi, cinque pance dentro un paio di pantaloni. Io, ogni volta che guardo questo paio di pantaloni, sono veramente di ottimo umore. Ci sono le foto di ognuna di noi con questi pantaloni. Insomma, è una storia fantastica. E ognuna di noi ha lasciato il proprio marchio. A un certo punto qualcuna ci ha messo della pittura bianca. Un’altra ha rotto il passa cintura e l’ha cucito con un filo rosso. Ognuna di noi ha lasciato il proprio marchio in questi pantaloni larghi di vita, quindi adatti alle pance. Ogni mio vestito ha una storia.
E chi non è bravo con ago e filo e con le riparazioni come fa?
Ti dirò che io stessa sono una pessima riparatrice, per questo mi affido a mani esperte, a persone che pago bene per mantenere i miei vestiti. E chi, per diversi motivi, non può fare quello che faccio io? È la nostra società che deve darci queste opportunità: dobbiamo avere l’opportunità di andare in un supermercato, in un negozio fast fashion e farceli riparare lì. Queste opportunità devono essere stabilite a livello di società, perché non tutti possiamo permetterci né il tempo per imparare a cucire da soli, né, necessariamente, una sartina come la mia, che fa questo lavoro per me.
Una cosa che io faccio molto spesso è quella di acquistare nell’usato, sia per me, sia per la mia figlia più grande. Per i due figli più piccoli, ho invece un circuito di scambio di vestiti con altre mamme. Cosa ne pensi dell’acquisto dell’usato, e dello scambio?
Acquistare nell’usato è difficile per chi ha poco tempo, perché bisogna avere naso, bisogna avere gusto, bisogna avere stile e bisogna essere anche abbastanza coraggiosi. Bisogna, dunque, avere estro per comprare nell’usato, a meno che non venga meglio distribuito all’interno della società.
Adoro lo scambio! La moda viene spesso interpretata come frivola, però è importantissima, ha un impatto enorme. Vivere questi scambi, vivere queste alternative in maniera giocosa, in maniera gioiosa è ciò che poi fa il trend. Un trend, infatti, non è altro che un gruppo di persone che vogliono seguire l’esempio. Se tutti noi, quindi, rendiamo queste alternative un esempio, abbiamo fatto un trend, che parla molto chiaramente ai brand, dicendo loro: «Noi non vogliamo di più, ma vogliamo di meglio. Abbiamo bisogno di meno».
*Questa intervista è tratta dal webinar di presentazione del libro di Orsola De Castro I vestiti che ami vivono a lungo tenutosi il 14 giugno 2021.