Certificazione biologica: quanto è importante e affidabile?
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2 anni fa
Per coltivare prodotti di qualità, valorizzare il territorio, creare rapporti umani solidali e comunità sostenibili
Se la vita in città sta stretta e ci si sente perennemente sulla ruota del criceto, in una continua rincorsa a guadagnare di più per spendere di più (sentendosi però sempre più frustrati), forse la migliore soluzione potrebbe essere quella di ritornare alla terra. Oggi sono sempre più numerosi i giovani che scelgono il lavoro agricolo come fonte di reddito, portando avanti un’agricoltura sostenibile per l’ambiente e per i lavoratori. Per iniziare è importante capire che il biologico è oggi l’unica scelta sensata e poi informarsi, formarsi e creare reti territoriali con gli altri produttori. Ne abbiamo parlato con Alessio Capezzuoli, agronomo e orticoltore, che ha recentemente scritto un approfondito manuale proprio sull’orticoltura biologica da reddito.
Quali sono oggi in Italia i numeri dell’orticultura biologica? Si tratta di un’attività in espansione?
Secondo i dati forniti da Federbio con 2,1 milioni di ettari, 102 mila in più rispetto al 2019, l’Italia nel 2020 si conferma il terzo Paese in Ue come superficie coltivata a biologico: ci precedono solo Spagna (2,4 milioni di ettari) e Francia (2,5 milioni di ettari). L’Italia (che brilla anche come incidenza di superficie bio sul totale 16,6 %, la più elevata in Ue che ha raggiunto una media del 9,2%) mantiene il primato come numero di produttori biologici attivi (71.590). È sicuramente un settore in crescita, grazie all’interesse sempre maggiore dei consumatori.
Molto spesso pensiamo che l’agricoltura biologica/naturale sia meno produttiva di quella industriale: è davvero così?
Sì è così, ma dobbiamo fare delle precisazioni. Negli ultimi anni si sono diffusi modelli di coltivazione industriale, come la coltivazione in idroponica (senza il terreno), che hanno una produzione per metro quadrato molto più elevata rispetto a qualsiasi tecnica di produzione ammessa in biologico sulla stessa superficie. Quello che però, ogni volta, ci dimentichiamo di menzionare sono i costi ambientali (concimi chimici, plastiche varie nella produzione e distribuzione delle piantine, teli delle serre, acque di scarto e tutta la filiera di produzione dei vari input) che vengono scaricati sull’ambiente e sulla comunità.
Al contrario, le produzioni in pieno campo o in serra dell’agricoltura convenzionale e biologica, fatta in maniera professionale, si equivalgono soltanto analizzando il parametro della produzione, ma sarebbero notevolmente a favore dell’agricoltura biologica se analizzassimo anche gli input e tutte le variabili relative alla sostenibilità ambientale.
Parliamo di certificazioni: possiamo parlare di orticoltura biologica anche in assenza di certificazioni? In che modo, da consumatori, possiamo fare una scelta consapevole e informata in sua assenza?
La certificazione biologica in orticoltura è un modello pensato male e realizzato ancora peggio. Mi spiego meglio. Si parte dal paradosso in cui io azienda pago chi mi controlla e posso scegliere i miei controllori. Le visite vengono fatte su appuntamento e possiamo decidere noi di quanto rinviare questa data. Il controllo si sviluppa esclusivamente su dei registri in cui l’azienda è obbligata a segnare i prodotti bio che acquista, quando e dove vengo utilizzati. Chi lavora nel settore sa bene come sia semplice comprare prodotti chimici non biologici e pagarli con scontrino praticamente ovunque. Invito (in maniera simbolica) chi sta leggendo questo articolo ad acquistare prodotti non ammessi come il glifosate o il decis in internet. Alcune aziende, dopo averti inviato il materiale, ti chiedono il patentino che ovviamente puoi non inviare, altre nemmeno lo chiedono e così funziona anche in tanti rivenditori di prodotti agricoli. Questi pagamenti posso essere effettuati alla consegna e in contanti tramite scontrino, non lasciando nessuna traccia.
Dato che quando critico un sistema ritengo opportuno proporre un’alternativa, negli anni ho sviluppato una mia idea di come dovrebbe essere il controllo del bio.
I registri sono solo una formalità e sono ore di lavoro per gli agricoltori. Un controllo dovrebbe prevedere prima di tutto uno o più organismi terzi pagati dallo Stato e non dall’azienda (l’azienda deve pagare lo Stato). Le visite devono essere svolte a sorpresa, senza telefonate o email. Il controllo è molto semplice. All’arrivo nell’azienda l’incaricato dovrebbe prendere almeno tre campioni: uno di terra, uno di acqua e uno o più campioni (in base alle coltivazioni e alle dimensioni) di frutti o piante coltivate. Su questi campioni dovranno essere svolti gli esami chimici per rilevare i principi attivi non ammessi in biologico (una volta erano 36). Qualora venga ritrovato uno o più prodotti non ammessi, oltre alla multa salata ci dovrà essere la sospensione della certificazione biologica per un anno e in caso di successiva presenza l’eliminazione dalla certificazione.
Per gli agricoltori questa semplificazione nei controlli permetterebbe la diminuzione delle spese per la certificazione e ridurrebbe soprattutto l’inutile tempo trascorso a riempire registri facilmente aggirabili.
Com’è possibile, quindi, riconoscere con certezza un’azienda biologica?
Per chi come me visita molte aziende e ha avuto la fortuna di studiare posso dire che già dopo 30 minuti di visita si capisce se un’azienda è veramente biologica o lo è soltanto sulla carta, per vendere i propri prodotti a un prezzo maggiore rispetto al convenzionale. Cambia il modo di impostare l’attività in generale, la gestione dei suoli, delle infestanti, dell’acqua, l’attenzione che diamo alle aree non produttive. Questi dettagli non passano inosservati alle persone del settore, ma sono invece difficilmente valutabili dai consumatori. A loro consiglio sempre di instaurare dei rapporti umani con chi vende gli ortaggi. Acquistare in azienda e preferire quelle che organizzano giornate aperte, incontri e iniziative è sicuramente un modo per tessere rapporti. Un agricoltore che ci mette la faccia è un agricoltore che ci penserà mille volte prima di compromettere un rapporto costruito in anni, dando ai propri clienti un prodotto non biologico.
Ci sono esperienze particolarmente significative in questa direzione?
Sicuramente quella di “Genuino Clandestino” di cui vi invito a visitare il sito. Si tratta di una rete di produttori biologici, certificati e non, che attraverso la garanzia partecipata organizza mercati e altre forme di distribuzione dei prodotti. Queste reti, chiamate nodi territoriali e presenti in tante città, si basano su relazioni umane tra produttori e tra produttori e consumatori. La peculiarità più importante di questa rete è che dietro al banco ci troverete soltanto chi produce quell’alimento. Inoltre ogni produttore può vendere soltanto quello che produce, pena l’esclusione dalla rete. Ogni produttore garantisce anche la salubrità dei prodotti altrui, in un rapporto di fiducia. Molto interessante è anche la parte che riguarda le visite in azienda, i momenti conviviali, la politica e le iniziative a favore delle realtà più piccole. Tutte occasioni per riportatore al centro il rapporto fra città e campagna, valorizzando la figura del contadino/a. Se c’è un nodo territoriale vicino a voi non esitate a visitarlo e se ne avete la possibilità aiutate nella creazione di un nuovo nodo.
Quali vantaggi ha l’imprenditore agricolo, il coltivatore diretto piuttosto che il comune cittadino che ha la fortuna di poter coltivare un orto nel passare all’orticoltura biologica?
Il lavoro degli agricoltori è tutt’ora un lavoro molto duro, faticoso e molto spesso non remunerato a sufficienza. Passare all’orticoltura biologica permette di valorizzare le nostre produzioni, perché se inseriamo quell’aspetto della conservazione e miglioramento dell’ambiente che non è minimamente affrontato negli altri modelli produttivi. Se ho una produzione di qualità fatta in maniera sostenibile avrò un prodotto di cui andare fiero e che potrò raccontare, diffondere e che mi darà numerose soddisfazioni. Pensate a un’azienda che produce pomodoro tondo liscio per i discount, la sua soddisfazione sarà soltanto il bilancio a fine anno, a patto che la GDO mantenga i contratti presi. Tante aziende passano al bio perché è possibile avere maggiori finanziamenti dall’Europa. Questo è l’errore classico di tanti imprenditori agricoli convenzionali: le aziende devono sostenere il proprio bilancio gestendo bene la propria realtà senza inquinare e senza sfruttare i lavoratori, non “drogandosi” con i soldi che arrivano dalla Comunità Europea (se arriva qualcosa bene, ma non deve essere la salvezza). Quello di cui abbiamo bisogno sono leggi giuste che difendano le produzioni di qualità locali invece di equipararle al bio prodotto negli Stati Uniti o in Cina.
Nel tuo ultimo libro parli di diversi metodi di coltivazione: l’agricoltura sinergica ideata da Emilia Hazelip; la permacultura promossa da Bill Mollison e David Holmgren; l’agricoltura biodinamica fondata da Rudolf Steiner; l’agricoltura organica rigenerativa di Jairo Restrepo Rivera; l’agricoltura del “non fare” proposta da Masanobu Fukuoka; l’agricoltura sintropica di Ernst Gotsch, il metodo Manenti e l’orto Bioattivo di Andrea Battiata. La tua proposta è quella di integrarli: per quale motivo?
Come spiego molto dettagliatamente nel libro i limiti dei diversi modelli di agricoltura stanno nella loro eccessiva frammentazione. Ogni modello agricolo sostenibile cerca di convincerti che quella tecnica è la migliore. Quello che ho sempre cercato di fare, dopo aver frequentato diversi corsi e aver letto quasi tutta la bibliografia presente sui diversi temi, è stato mantenere una visione aperta. Nella mia azienda di famiglia ho sperimentato di tutto e alla fine ho scelto e diffuso le pratiche che funzionano, indipendentemente dal modello produttivo. Credo che la nuova sfida per i tecnici, gli agronomi e chi ha a cuore il settore dell’agricoltura sostenibile sia quella di mettere in contatto le diverse aziende e le diverse associazioni organizzando delle giornate da ripetere annualmente, in cui conoscersi e scambiarsi i dati sulla ricerca e sulle nuove tecniche. Non ha senso remare ognuno per la propria strada in una fase storica in cui i cambiamenti climatici ci impongono di andare tutti nella stessa direzione. Questa rete dovrebbe essere favorita dalla politica e dalle università, che però anche latitano. Allora, invece di delegare e aspettare ancora una volta, è arrivato il momento creare le condizioni per realizzare questi momenti di scambio e di crescita collettiva.
Da dove iniziare se si vuole creare da zero un’azienda agricola naturale?
Ho scritto un capitolo abbastanza lungo e dettagliato sul libro e sul sito orticolturabio.it. Non esiste una regola generale e ogni area nel nostro Paese ha una sua specificità e delle tradizioni da mantenere e valorizzare, che sono la vera ricchezza di chi sceglie questo lavoro. Quello che non deve mancare è la formazione, non importa che sia tramite corsi, libri o tecnici preparati. Quello che serve è il coraggio di lasciare un lavoro più o meno sicuro in città per un futuro incerto in campagna, che probabilmente ci farà guadagnare di meno, ma incrementerà la nostra qualità della vita.
Chiudo quest’intervista facendo io una domanda a chi ci legge. Cos’è per voi la qualità della vita? È rappresentata da quanti soldi guadagnate e quindi da quanti beni più o meno utili siete in grado di comprare per soddisfare la vostra felicità oppure è fatta di relazioni umane, vere e sincere, di convivenza con la natura, con i suoi cicli biologici e con i frutti che è in grado di darci per ottenere un reddito con cui soddisfare le esigenze delle nostre famiglie? Se la risposta è la seconda forse è arrivato il momento di guardarvi intorno, c’è un pezzo di terra con una casina che vi sta chiamando.