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La fast fashion e le sue conseguenze

Pubblicato 4 anni fa

“Chi ha fatto i miei vestiti?” si domanda la Fashion Revolution, uno dei movimenti più etici della moda.

Sembra davvero banale, ma questo interrogativo dovremmo porcelo ogni volta in cui ci troviamo davanti alla scelta di acquistare, o meno, un prodotto nuovo. Ancora di più se è un capo di abbigliamento. Ancora di più se il suo prezzo è talmente basso da colpirci particolarmente.

Indice dei contenuti:

Cosa significa Fast Fashion?

52 collezioni all’anno, forse di più. Prezzi bassissimi, al limite del possibile. Design copiato da grandi marchi del lusso così come da piccoli brand artigianali. Qualità dei materiali scadente, manifattura minimale per usare un eufemismo, dettagli non curati. Zero rispetto per i lavoratori, per le loro condizioni economiche e di salute, per la sostenibilità, per l’ambiente. Questa è la fast fashion, ossia moda veloce.

Oggi si vende circa il 400% in più rispetto a vent’anni fa. Ma come abbiamo fatto ad arrivare fino a questo punto?

Un po' di storia

Dopo il boom degli anni sessanta, che ha portato ad una generale diffusione dei capi di abbigliamento, lo shopping ha proseguito la sua pazza corsa fino ad arrivare alla velocità della luce dei nostri tempi frenetici.

Abbassando i prezzi i produttori hanno reso l’offerta molto più accessibile, creando un effetto boomerang di consumi ed un vortice di usa e getta, soprattutto tra il pubblico più giovane e facilmente malleabile.

Il termine ‘fast fashion‘ è nato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80, quando per la prima volta il New York Times utilizzò questa espressione. In quel periodo infatti apriva il suo primo negozio una tra le più grandi catene, ancora oggi molto in voga.

Sebbene venga considerata un processo di democratizzazione della moda, per cui tutti abbiano la possibilità di vestirsi secondo le tendenze, a prescindere dallo stipendio, la moda veloce ha creato però dei meccanismi malati, sia per l’industria-moda sia per i consumatori.

Le conseguenze

Quando troviamo nei negozi t-shirt o pantaloni a poche decine di euro dobbiamo ricordarci che il prezzo esposto non è mai quello che dovrebbe essere.

Basso prezzo non è solo bassa qualità ma, come abbiamo detto, anche bassi salari percepiti dai lavoranti, bassa sicurezza, zero norme igieniche e zero protezione per l’uomo e per l’ambiente.

In molti paesi, tra cui anche l’Italia, il settore tessile ha subito grosse perdite di posti di lavoro e di know how a causa della fast fashion.

I ritmi di produzione della fast fashion riescono a sostenersi solo producendo laddove il costo del lavoro è più basso e utilizzando materiali di scarsa qualità, principalmente sintetica ed inquinante, completando il ciclo con tinture assolutamente non sane, né per l’ambiente né per gli utilizzatori finali. Fondamentale è l’impatto ambientale dei processi, per cui quella della moda veloce si dice essere la seconda industria più inquinante per emissioni di gas serra, dopo quella petrolifera e la seconda per inquinamento delle acque, dopo quella chimica.

I dati dicono che la manodopera nelle fabbriche di vestiti di tutto il mondo, soprattutto la parte del mondo più fragile, sia costituito da donne sottopagate e sfruttate.

Sicuramente, al di là dell’attendibilità di queste informazioni, spesso nebulose e poco trasparenti, nell’ultimo decennio l’attenzione a questo tema è concretamente aumentata. Nazioni Unite, Greenpeace, Banca Mondiale, Mckinsey, molti sindacati internazionali e testate giornalistiche autorevoli si stanno occupando a piene mani di trovare delle soluzioni.

Le migliori scelte future

Grazie all’adesione di molte aziende alla DETOX Campaign di Greenpeace, iniziata nel 2011, la situazione sta migliorando e si prefigge di raggiungere lo "zero discharge" - scarico di sostanze chimiche - in tempi brevissimi.

Inoltre, in vigore dal 1 settembre, il nuovo accordo con il Bangladesh, che subentra al precedente firmato dopo il crollo del Rana Plaza nel 2013, tutela la sicurezza dei lavoratori del settore tessile, obbliga i brand a pagare prezzi sufficienti ai fornitori, lascia libertà di associazione ai lavoratori, creando una governance condivisa tra operai e marchi, creando sensibilizzazione e garantendo la supervisione di un organo di sorveglianza con l’autorità di verificare e fare rispettare gli impegni presi da parte dei brand.

Il movimento Fashion Revolution, nato dopo il 2013 grazie a Orsola de Castro e Carry Somers, presente in più di 100 paesi nel mondo, invita i consumatori a chiedersi, prima di acquistare un capo di abbigliamento, chi l’ha fatto, dove e come.

Vuole essere un primo passo verso una consapevolezza ed una cultura nuova. Vuole portare noi tutti a riconquistare il potere di cambiare le cose che non funzionano, per creare il mondo che vogliamo. Un mondo più etico e sostenibile, che rispetta tutti gli esseri umani e questa madre terra che ci ospita.

Sicuramente mancano leggi internazionali che tutelino a livello globale il mercato. Perché siamo tutti direttamente responsabili e coscienti, ma abbiamo bisogno di scelte univoche che diano forza a questi movimenti. Confidiamo che questi grandi cambiamenti possano diventare presto realtà concreta e tangibile.

Come combattere il fast fashion

Per approfondire puoi leggere:


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