Le illusioni della medicina “scientifica"
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1 anno fa
Dai suoi albori la scienza richiede test, sperimentazione e libertà di indagine, senza condizionamenti economici: oggi è ancora così?
Abbiamo tutti studiato a scuola le vicissitudini di Galileo Galilei che, acuto e corretto osservatore dei fenomeni fisici e astronomici, non esitò a dare supporto alla teoria copernicana eliocentrica, fino ad essere condannato dal Sant’Uffizio all’abiura delle proprie idee e, nel 1633, confinato ad Arcetri. Ci vollero 359 anni perché la Chiesa cattolica ammettesse tardivamente il proprio errore, riabilitandolo. Ma Galileo, considerato il padre del metodo scientifico, si era già abbondantemente riabilitato da solo, avendo conferito alla scienza intera un metodo - quello della prova sperimentale - che tanto successo ha poi avuto nei secoli a seguire, trasformando la ricerca in un processo concreto, lontano da interpretazioni ideologiche e di parte, o dagli “ipse dixit” delle autorità scientifiche precedenti.
La scienza tuttavia non è mai stata scevra dalle nefaste influenze della vil pecunia o dalla tentazione del potere di farne cosa propria.
La storia è ricca, purtroppo, di tristi episodi. Dall’obbligo a Cartesio di separare la res cogitans (appannaggio della Chiesa) dalla res extensa (Il corpo, unico possibile oggetto di studio), passando per la persecuzione di Ignaz Semmelweiss (colpevole solo di aver segnalato che bastava ai medici disinfettare le mani dopo le operazioni, per evitare la morte di tante donne per febbre puerperale), per arrivare alla “scienza” hitleriana, volta a dimostrare la superiorità della razza ariana sulle altre.
Il “vizietto” non pare smarrito neanche nei tempi moderni, quando viene chiamata scienza un’unica interpretazione del processo pandemico volta a valorizzare il solo intervento vaccinale (escludendo o addirittura perseguendo tutti gli altri mezzi, ancorché ben documentati), e togliendo qualunque spazio di divulgazione a qualunque interpretazione dei dati diversa da quella ufficiale.
Abbiamo purtroppo dovuto sentire spesso, in questo periodo, una frase del tutto priva di significato: “Chi non crede nella Scienza…” seguita dalle più nefande considerazioni (tra le più moderate, l’augurio di morire tra atroci spasmi e l’invito a pagarsi da soli le proprie cure).
Come si può chiedere di “credere” nella scienza?
Dai suoi albori la scienza è dubbio, confronto, analisi critica, scetticismo, ricerca di possibili soluzioni anche fuori protocollo. Se funziona, ed è ripetibile, vale, e diventa nuova regola. Se non funziona può avere il supporto di mille lavori sperimentali, ma non decollerà. Si “crede” in una religione, in un partito politico, in un racconto, in un leader, giammai nella scienza. La scienza richiede test, sperimentazione e libertà di indagine, senza condizionamenti economici. Allora è scienza. Diversamente, come è avvenuto in passato in diversi regimi dittatoriali (sia nella Germania nazista che in Unione sovietica), si tratta solo di un modo raffinato per sottomettere i popoli al volere dei potenti o di un modo molto becero e aggressivo per creare nuovi malati e riempirli di farmaci.
La deriva delle cure protocollari e degli screening attraverso i quali emergono sempre più e sempre nuovi malati, rende tutti felici: i pazienti che pensano di essere stati salvati da morte sicura. I medici, fieri eroi del salvataggio. L’industria farmaceutica che si trova a disposizione milioni di “finti malati” da curare.
Questo avviene ogni volta che un qualsiasi sistema diagnostico (o linea guida che restringe i margini di normalità) inserisce nel numero dei malati degli individui che malati (ancora) non sono.
A chi nuoce un sistema che non funziona
Medici, pazienti e industria saranno solo felici e avranno l’illusione che la tecnologia scientifica sia qualcosa di cui oggi non possiamo più fare a meno. Quindi avanti a tutta? Attenzione, perché qualche danneggiato c’è, in questo giochino che fa tutti (apparentemente) felici. In primis i pazienti sottoposti a cure inutili, che dovranno subire effetti collaterali farmacologici alquanto pesanti. I quali non sapranno mai di essere stati erroneamente inclusi tra i malati, quando non lo erano. Spesso i numeri dei decessi restano uguali perché il numero dei danneggiati da farmaci bilancia (o supera) il numero dei pochi “salvati” che sarebbero deceduti se non diagnosticati per tempo. Ma nessuno di questi pazienti lo saprà. Chi si permette infatti di mettere in dubbio una diagnosi così precisa e accurata?
Il danno maggiore tuttavia è quello per il sistema sanitario nazionale e, alla fine, per le nostre tasche. Se pensiamo a decine e decine di patologie diverse per le quali vengono messi in atto dei meccanismi di sovradiagnosi, possiamo facilmente renderci conto dei miliardi di euro che tale farsa comporta. Miliardi nostri che finiscono invariabilmente nelle capienti tasche dell’industria farmaceutica, per cure inutili. Con il risultato che poi non ci sono più fondi per nessuna attività di prevenzione vera (quella che abbassa, non che alza il numero dei malati), e per una TAC o una RMN bisogna aspettare due anni. È un sistema, come si può capire, marcio sin dalle fondamenta. Ma provate a scrivere in qualunque sede che una mammografia o una biopsia prostatica potrebbero non essere quella panacea da tutti decantata e vi salteranno in testa come se foste un eretico, con decine di testimonianze di persone che solo grazie ai nuovi criteri di diagnosi hanno avuto salva la vita. E chi siamo noi per rompere questo giochino che piace a tutti?