Come può un segno guarire dal male? Che faccia avranno quelli che segnano, come fanno? E, soprattutto, ci saranno ancora?
Lepre, lepre, che ti passi la febbre; la lepre vola, ritorna da sola, di là dalla luna, la lepre vola.
Lo fa per una, due, tre volte e nel ripeterle e ripeterle, le parole acquistano un ritmo, si trasformano in canto; un canto sussurrato che mi entra nella testa, nel corpo, a farmi capire che se avessi avuto la febbre potente l’avrebbe raggiunta e affrontata senza dichiararle guerra, semplicemente con il racconto di un viaggio che, a forza di essere cantato in rima, diventa vero, un viaggio in cui la lepre vola sulla luna, nella parte oscura, quella che non si vede, a portare la febbre e ritornare sola, guarire il malato.
Dall’esperienza personale del dolore fisico e dal sospetto che la medicina scientifica contemporanea abbia sottovalutato e trascurato il dialogo con il paziente, l’autore inizia un viaggio in Appennino sulle tracce di chi ancora guarisce attraverso gesti, simboli e parole: un mondo ancora sorprendentemente vivo e potente.
Le donne che incontra hanno mantenuto una visione magica della cura nella quale il male è un ospite permaloso che va convinto a spostarsi, uscire dal corpo dopo essere stato incantato, addomesticato e mai umiliato.
I riti, tramandati in gran segreto da generazioni, si incastonano con semplicità nella cultura contadina e rurale, dove il legame con l’ambiente naturale è più forte.
Eredi degli sciamani, le guaritrici rivelano in fondo ciò che la medicina ha smarrito: quel modo di curare in cui il paziente diviene protagonista della propria guarigione.